Fatto: tante partite IVA – piccole e medie industrie, artigiani, commercianti, professionisti, etc. – chiudono.
Per recessione, stretta creditizia, oppressione burocratica e fiscale, crediti verso lo Stato.
Se, come vuole la vulgata comune, la categoria pullulasse di incalliti evasori, ci si aspetterebbe che abbia risorse per rimanere sul mercato.
Così non è: non tutti i lavoratori autonomi imbrogliano il Fisco, tanto quanto non tutti i dipendenti hanno un secondo lavoro o sono furbetti del cartellino.
Se non si spezza questa spirale perversa, sarà difficile discutere seriamente di politiche fiscali, al netto di slogan e pregiudizi.
Fatto: le misure penali per gli evasori esistono da tempo.
La legge numero 516, del 1982, era meglio nota come “manette agli evasori” (ne detiene il copyright): eppure ha statisticamente prodotto il minor numero di condanne.
Perché? È presto detto: quando l’ipotesi di reato, basata su verifiche o accertamenti tributari il più delle volte fondati su semplici presunzioni (legittime in tale ambito), non trovava, nel dibattimento penale, la presenza di quegli indizi gravi, precisi e concordanti che facessero emergere, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità dell’imputato, il giudice penale decideva per l’assoluzione.
La legge del 1982 ha solo ingolfato le Procure, tanto da imporre la riforma del 2000.
Fatto: il decreto legislativo 74/2000 prevede già, per i reati più gravi, pesanti misure cautelari, sia personali (inclusi, per alcune condotte più riprovevoli, l’arresto facoltativo in flagranza; la custodia in carcere; gli arresti domiciliari; il divieto e l’obbligo di dimora), sia reali (il sequestro conservativo e quello preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente).
Per emissione ed utilizzo di fatture fittizie, dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, occultamento e distruzione dei documenti contabili, le intercettazioni sono già ammesse.
Allora, il punto è: cosa c’è di veramente nuovo nell’innalzare le pene massime, minacciare le manette anche per le dichiarazioni infedeli (e non solo fraudolente), estendere l’utilizzo delle intercettazioni, applicare la confisca c.d. “di sproporzione”, come stabilisce il decreto fiscale di questi giorni?
Una risposta sgombra da ideologie e costruita su una effettiva conoscenza delle dinamiche del fenomeno non può non tenere conto del rischio di “barbarie” insito nei meccanismi di ricostruzione dell’imposta “evasa”.
Fatto: l’evasione italiana “stimata” – circa 107 miliardi di euro, una enormità – non corrisponde a gettito fiscale realmente recuperato.
Per gli incagli della riscossione, sicuramente, ma anche perché non tutto “l’accertato” si rivela realmente “dovuto”.
Proiettando il dato nella dimensione, molto più delicata, del processo penale, l’eventualità che moltissimi capi d’imputazione, ripresi dalle fonti ispettive, si mostrino infondati, non è un rischio. È una certezza.
Eppure, con il percorso che vede il verbale della Guardia di Finanza o degli Uffici tradotto pedissequamente in accertamento e, al superamento di determinate soglie (ora abbassate dal decreto fiscale), in obbligo di denuncia all’Autorità giudiziaria e in facoltà di utilizzo delle intercettazioni, il potere che viene dato ai verificatori è abnorme: una vera e propria licenza di determinare i destini dei contribuenti, di privarli della disponibilità di beni a futura memoria, del credito sociale e bancario già all’epoca delle indagini.
E siccome l’esperienza insegna che, accanto a tanti evasori, ci sono anche alcuni funzionari pubblici che abusano del proprio potere,le conclusioni è facile trarle.
Si dirà: il pericolo esiste dinanzi a qualsiasi delitto. Non è lo stesso: per temere di essere accusati di truffa allo Stato, o di abuso di ufficio, occorrono quanto meno, presupposti soggettivi ed oggettivi ben definiti.
Restando agli esempi, non corro particolari rischi se non ho affatto negoziato con la P.A. o non rivesto una carica pubblica.
Con l’evasione, è tutta un’altra storia: le ricerche parlano di oltre 8 milioni di veri o asseriti evasori, ma, soprattutto, ognuno potenzialmente lo è, perché anche l’azienda o il lavoratore autonomo più fedeli ed onesti non sono al riparo dal sospetto di non avere dichiarato il giusto.
In parallelo, potrà essere più scivolosa la valutazione della sussistenza di “gravi indizi di reato”, richiesta dall’articolo 267 c.p.p. per l’autorizzazione delle intercettazioni.
Ci sono, è vero, le famose “soglie”: ma, in primo luogo, che siano o meno varcate lo si scopre a posteriori; e poi non è così difficile, anche per un commerciante o per un professionista di medie dimensioni, vedersi “attribuito”, a tavolino o con sistemi presuntivi, un maggiore carico di imposte di siffatta entità.
Fatto: molte possibili liti fiscali si spengono sul nascere, mediante i cosiddetti istituti deflattivi.
L’accertamento con adesione è già oggi agitato dagli Uffici come una clava, per evitare l’alea ed i costi del contenzioso.
I contribuenti finiscono per cedere al patto di desistenza, spesso perché hanno peccato, altre volte per stanchezza o paura.
Figurarsi quando gli Uffici potranno sventolare il cappio del superamento delle soglie penali: in prossimità dei 100mila euro, ci sarà la corsa ai saldi.
E dunque, bisognerebbe rassegnarsi all’evasione-record?
Tutt’altro: vale la prevenzione, più che la repressione. Solo che la prima fa meno sensazione, meno “prigionieri”.
Le partite aperte solo per “fare carta” (fatture false) possono essere scoperte con l’incrocio dei dati dell’Anagrafe Tributaria, con un maggiore controllo del territorio.
Se una ditta apre la partita IVA e, ad esempio nei primi due anni, emette una raffica di fatture ma non versa un euro di IVA o dichiara soltanto perdite, le si potrebbe imporre di presentarsi e giustificare la sua posizione all’Ufficio: se le ragioni non sono valide, se, fin dall’inizio, ha le stimmate della cartiera, la si blocchi prima che faccia danni, regalando fatture di comodo.
La prevenzione si attua anche con una diversa politica UE che, rendendo omogenee le aliquote tra Paesi membri, consenta di tassare il bene nel Paese di origine e non in quello di arrivo, ove, notoriamente, si presta alle frodi più raffinate.
Si realizza con più risorse e mezzi agli organi di accertamento. Con la possibilità di dedurre più spese per acquisti di beni e servizi.
E, da ultimo ma non ultimo, con la riduzione della pressione fiscale.
L’evasione “da sopravvivenza” non è una costruzione artificiale: chi oggi denuncia un reddito netto d’impresa o di lavoro autonomo – mettiamo – di 80mila euro (certo non un’inezia, se si pensa che è già depurato dei costi), ne porta a casa, dopo il prelievo di Irpef, Irap, addizionali e contributi previdenziali, circa 35mila.
Con l’aggravante che quel reddito (magari unico in famiglia) non godrà di TFR e, ancor più, soggiace ad una “condizione risolutiva”: vi graverà l’ipoteca che sia considerato frutto di una dichiarazione infedele, meritevole di una “rivisitazione” fiscale, se non di un apprezzamento penale.
Così è, se vi pare.

Franco Mancini

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