Tre italiani su dieci muoiono di malattie cardiovascolari, questo dato viene confermato anche da un recente rapporto dell’Istat. L’Organizzazione mondiale della sanità prevede che il numero di pazienti ad alto rischio cardiovascolare, dagli attuali 300 milioni supererà i 600 milioni nel 2020. L’aumento dell’aspettativa di vita, così come l’incremento della sopravvivenza dopo eventi cardiovascolari acuti, come l’infarto miocardico, contribuiscono ad accrescere il numero di persone a rischio cardiovascolare elevato o molto elevato.
Oltre alla prevenzione e diagnosi precoce è fondamentale intensificare le attività di ricerca scientifica orientate ad individuare nuove cure contro i “big killer” del nostro tempo. Nuove prospettive terapeutiche potrebbero emergere dal “ruolo dell’autofagia nei pazienti cardiochirurgici”. L’argomento verrà discusso oggi (martedì 4 aprile) alle ore 15 nell’aula “Crucitti” della Fondazione “Giovanni Paolo II” di Campobasso in un seminario promosso dal Dipartimento di malattie cardiovascolari, diretto dal dottor Carlo Maria De Filippo. Interverranno, tra gli altri, il direttore generale, dottor Mario Zappia, il prof Antonio Maria Calafiore, già primario della Cardiochirurgia dell’ospedale di Chieti, considerato da tutti uno dei “padri nobili” della Cardiochirurgia italiana. Relazioneranno sull’argomento i professori Giacomo Frati e Sebastiano Sciarretta.
Autofagia, dal greco ‘mangiare se stessi”, è un processo che permette alle nostre cellule di riciclarsi e rinnovarsi. È come se le nostre cellule si “autoriciclassero”: distruggono le loro componenti che sono diventate inutili e le trasportano al di fuori della loro membrana, giocando quindi un ruolo fondamentale nelle nostre difese. Da una parte questo meccanismo permette la pulizia della cellula, dall’altro permette alla cellula di sostenersi in situazioni difficili.
Recenti scoperte hanno dimostrato che le cellule sono dotate di una sorta di cilindro che raccoglie le proteine vecchie e danneggiate. È un meccanismo, questo, molto delicato che, se viene ostacolato o rallentato, produce proteine “spazzatura” che non vengono smaltite ma si accumulano in sacche ostruendo l’attività cardiovascolare. Questa potrebbe essere una valida spiegazione scientifica ad alcune patologie come la morte improvvisa di alcuni atleti e l’origine di alcune malattie rare. La ricerca su queste patologie andrebbe sempre sostenuta: non solo per ovvi motivi etici nei confronti di chi ha la sfortuna di averle sviluppate, ma anche perché costituiscono modelli di studio da cui possono scaturire risultati di grande impatto per patologie molto più diffuse.I ricercatori stanno verificando l’ipotesi che questo stesso meccanismo possa portare anche alla comparsa di altre cardiomiopatie di origine genetica o dovute a fattori come l’invecchiamento e l’ipertensione, ma la scoperta potrebbe avere anche altri risvolti pratici. Gli esperti si confronteranno anche sui protocolli scientifici promossi dalla Fondazione “Giovanni Paolo II” in collaborazione con i principali istituti di ricerca di profilo internazionale.

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