Il Comitato “Dissesto Fronte nord di Civitacampomarano” riaccende i riflettori sul piccolo borgo molisano che ha dato i natali a Vincenzo Cuoco e Gabriele Pepe interessato da un movimento franoso in pieno centro abitato che lo sta relegando alla marginalità economica e all’isolamento con numerosi sgomberi, crolli e delimitazioni. A un anno esatto dall’inizio del dissesto «oltre alla rovina della natura, ora pare calare anche la funerea e taciturna inerzia dell’uomo». Di fronte a questo stato di cose, il Comitato ha scritto al Capo dello Stato, al presidente del Consiglio, al governatore della Regione, al presidente della Provincia di Campobasso, al prefetto e al vescovo di Termoli.
«Abbiamo adempiuto a tutte le indicazioni dell’ Ord.481 /17, abbiamo redatto schede, sottoscritto dichiarazioni e stime, eppure non un programma, non un contributo di autonoma sistemazione, non una notizia sulla ricostruzione-delocalizzazione, non un dovuto e solerte accompagnamento informativo e partecipativo alle decisioni e al destino che riguardano decine di nuclei familiari sgomberati e privi del bene primario della casa su cui erano riposti i sacrifici e i sogni di generazioni su generazioni.
L’amministrazione locale, con tutta la buona volontà e dedizione del sindaco, ma anche con tutti i limiti di una “forza demografica” di appena 400 anime, non riesce a farsi carico di oneri che non siano opere collaterali come la viabilità alternativa o la nuova sede comunale (anch’essa sgomberata).
Egregie autorità della Repubblica, in un anno elettorale come il 2018 in cui siamo stati chiamati sia per il rinnovo del Parlamento, che della Regione Molise, sarebbe stato fintroppo facile e scontato imitare altre comunità che strappano o rinunciano alla scheda elettorale, con ciò mostrando sfiducia e disperazione sul primo, inalienabile e più alto diritto costituzionale del cittadino: esprimersi ed agire per il bene comune.
Noi civitesi, e in particolare noi civitesi danneggiati da questa immane calamità naturale, siamo invece ancora dignitosamente fiduciosi nello Stato, siamo lavoratori nelle zone più – impervie e isolate dell’Appennino, siamo caparbiamente consapevoli che verremmo meno all’onore di chi prima di noi e meglio di noi ha ideato, sofferto, preparato e servito la Repubblica Italiana, se perdessimo la speranza che lo Stato possa occuparsi anche del più remoto lembo del suo territorio.
Quanto vane sarebbero state quelle illustri esistenze dei secoli scorsi se Civita dovesse divenire “il Belice del Molise”, se dovessero avviarsi operazioni urbanistiche non democraticamente partecipate, se dovessero risuonare nell’aria molisana quelle sinistre risatine imprenditoriali avvenute dopo il terremoto del L’Aquila!!
Noi avremmo perso per sempre, come le abbiamo perse, le nostre antiche dimore che trasudavano sacrificio e affetti, bellezza e storia, ricordi e sogni, voi avreste perso l’occasione di dimostrarci che la Repubblica è il più alto risultato ottenuto dal popolo italiano nella sua storia plurimillenaria .
Tornando a citare il brindisi con cui nel 2004 al Quirinale il presidente Ciampi citò Vincenzo Cuoco: “Alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini”. Gli “ordini”, le Istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma a rendere vitali le istituzioni servono gli uomini, le loro passioni civili, la loro determinazione di far contare la loro voce nel mondo: la nostra voce europea».

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