«Sei anni durante i quali, in silenzio, ho desiderato, sperato, aspettato che qualcosa si muovesse intorno a me, che qualcuno mi chiedesse quale fosse il mio stato d’animo, che mi porgesse una spalla dove appoggiarmi, un consiglio, uno stimolo. Ho sentito solo il suono più rumoroso di tutti: il silenzio!».
Da più di sei anni, da quel maledetto 3 febbraio 2013, nelle orecchie di Enzo Mascia c’è un rumore assordante, insopportabile: il rumore del silenzio.
Il silenzio delle persone da cui evidentemente si aspettava qualcosa di più. Il silenzio «di tutti quegli amici a cui quando le cose giravano per il verso giusto ho dato una mano, rimettendoci decine di migliaia di euro». Il silenzio «delle istituzioni, della famiglia». Una sola eccezione, la figlia Michela. È grazie a lei che oggi ha ancora un briciolo di forza per ribadire che è stato vittima di un errore.
Il tribunale a dicembre di sei anni fa lo ha scagionato da ogni accusa. In «nome del popolo italiano» è stato dichiarato innocente, ma la sentenza non gli ha restituito la necessaria serenità. La sentenza non ha fatto giustizia.
Pettegolezzi, dicerie, parole che fanno male più delle lame affilate dei coltelli.
Enzo Mascia fu arrestato a febbraio del 2013 con una accusa terribile, infamante: violenza sessuale su minore. Secondo gli inquirenti aveva abusato di una bimba di appena 7 anni, figlia di una sua amica che gestiva un club privato.
Dopo 139 terribili giorni trascorsi in cella a Poggioreale fu rimesso in libertà dal Tribunale del riesame «per assenza di indizi di colpevolezza». Poi l’assoluzione con formula piena «per non aver commesso il fatto». La sentenza arrivò al termine del rito abbreviato. I suoi legali erano certi che la procura avesse presentato ricorso in appello. Per quel tipo di reato è inevitabile. E invece la stessa pubblica accusa rinunciò al secondo grado di giudizio, mettendo una pietra tombale sulla vicenda.
Enzo è uscito irrimediabilmente segnato da quella esperienza. È stato per anni in cura, ha cercato di ricominciare d’accapo, «ma è molto difficile. Probabilmente è impossibile. Ho sempre gli occhi di tutti puntati addosso. È un continuo chiacchiericcio sulla mia persona».
Poi ci sono i ricordi. «Nella mia mente c’è ogni istante di quei 139 giorni trascorsi in una cella di 24 metri quadrati insieme ad altri 10 detenuti. Sento ancora il dolore delle manganellate, delle botte. Delle torture. Risuonano nella mia mente gli insulti. Rivivo le umiliazioni. Tutto questo per non aver fatto nulla».
Nei suoi occhi c’è rabbia. Il suo volto è tirato. Mentre parla si volta in continuazione, si guarda alle spalle. È irrequieto, sospettoso. Ha paura.
Nonostante tutto Enzo non si arrende. La sua storia presto diventerà un libro. Nel periodo di detenzione riempì di inchiostro più di 300 fogli di block notes.
Per tanto tempo non ha scritto più. Poi, qualche mese fa, ha ripreso la penna. Lo ha fatto dopo che gli hanno riferito dell’ennesimo pettegolezzo. Persone di fuori arrivate a Cercemaggiore per un funerale e poi intrattenutesi a casa di conoscenti. Erano i giorni dell’ultima campagna elettorale per le amministrative. Tra i candidati, un familiare di Enzo. «Non potete votarlo, è il fratello di un pedofilo». Un accusa «che fa più male di una coltellata dritta al cuore».
Non si capacita, non se ne fa una ragione. Ha perso fiducia, non crede più nelle istituzioni. «Se uno Stato esistesse, nessuno avrebbe il diritto di trattarmi così».
Enzo ha sempre vissuto al massimo. Negli anni in cui i soldi si facevano con facilità era proprietario di un negozio di abbigliamento a Campobasso che incassava milioni di lire ogni giorno. Una miniera d’oro.
Una vita, lo riconosce, fatta di eccessi, trasgressioni, senza regole. Ma lui con quella storia, lo ha stabilito pure il tribunale, non c’entrava nulla.
Come è potuto accadere, ancora non se lo spiega. I giudici lo hanno riconosciuto estraneo ai fatti, ma nessuno gli ha detto cosa è successo, perché proprio lui.
Una mezza idea l’ha sempre coltivata, dopo i fatti di Bibbiano quella idea è quasi una certezza. Le indagini che lo coinvolsero fino all’arresto partirono dalla denuncia di un’assistente sociale. «Nel corso dell’incidente probatorio – racconta – l’assistente sociale chiese per tre volte di interrompere la seduta perché, sosteneva, la bimba aveva necessità di andare in bagno. Ogni volta che rientravano nella stanza, la piccola rispondeva ancor prima che le venisse posta la domanda. Cosa altro devo aggiungere? Mi pare che a Bibbiano sia accaduta più o meno la stessa cosa».
Mostra con nervosismo i fogli che ogni giorno riempie di inchiostro. C’è la cronaca, ci sono i fatti. I dubbi, le incertezze. I perché. Le domande senza risposta. E poi tanti, tantissimi pensieri messi nero su bianco, molti dei quali davvero profondi. Struggenti. Sembrano passi di componimenti poetici.
In quegli scritti c’è l’angoscia di un uomo che non riesce a farsi una ragione di quanto accaduto. C’è la consapevolezza che un errore giudiziario gli ha portato via serenità e certezze. Per sempre.
Perché un libro? «Perché raccontare la mia storia è l’unico modo che ho per difendermi, è l’unico modo che ho per ristabilire la verità, anche tra chi si ostina, forse per ignoranza, o magari per il gusto di farmi del male, a credere in qualcosa che non c’è mai stato. Poi ci sono gli atti del processo, le accuse inventate a tavolino, la ricerca di un colpevole, necessaria probabilmente a consentire l’affido della bimba. Gli abusi che ho subito durante la detenzione».
Enzo è alla ricerca di una casa editrice seria che prenda a cuore la sua storia. Ha avuto approcci con qualche editore, sia locale sia di fuori regione, ma finora nessuno lo ha convinto.
«Non cerco notorietà, tutt’altro. In realtà vorrei che si spegnessero definitivamente i riflettori. Lo devo, però, a mia figlia. Lei è l’unica ragione per cui ancora vivo».

l.c.

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