La città d’Isernia a buona ragione può essere definita la città dei merletti a tombolo. Il ticchettio dei fuselli è una voce che colma il silenzio dei vicoli, delle piazzette del centro antico. Fino a poco tempo fa sulle soglie delle case, al fresco dei portoni o davanti la fontana fraterna, al primo raggio di sole, le donne ricamavano le loro meraviglie e dalle loro mani nasceva il leggiadro merletto che andava a fare bella mostra nelle sfavillanti vetrine di grandi città, per fare da corredo per qualche sposa o a vestire di festa un letto, un divano e perché no anche la mensa di qualche altare. Purtroppo oggi sono rimaste in poche e si vedono sempre più raramente. Un vero peccato perché sta scomparendo una nobile arte che Isernia conobbe ai primi del ‘500, un’arte che era in vasta fioritura per mano delle religiose. Infatti le badesse del convento di S. Maria delle Monache non erano intente solo alla muta contemplazione ma anche alla lavorazione del tombolo: inizialmente come passatempo, poi come occupazione vera e propria. Nel convento veniva a monacarsi la più eletta aristocrazia femminile del Reame: congiunte di pari e vicerè di Spagna, secondogenite di doviziose casate. Ma per conoscere il periodo esatto dell’arrivo a Isernia dell’arte del merletto bisogna risalire all’epoca della dominazione spagnola nel Regno e cioè ai primi del ‘500. Secondo uno studio del prof. Angelo Viti, che per anni è stato il direttore della biblioteca “M. Romano” di Isernia, il merletto era in auge prima di tale periodo, sin quando gli Angioini estesero la loro sovranità anche sul Molise. Infatti in inventari della fine del ‘300 o del primo ‘400 si trovano già definizioni chiarificative di “radizellis” o “reticello”, terminologia che induce a ravvisare in esse un’esecuzione generica del merletto. Che il tombolo si fosse emanato proprio dal reame di Napoli, raggiungendo le regioni limitrofe e l’Italia settentrionale, è attestato dagli archivi della Corte Estense. Qui documenti narrano che le principesse Eleonora d’Aragona, moglie di Ercole I, e la sorella Beatrice, futura regina d’Ungheria, si occupassero negli svaghi di un”friseto d’oro fatto di piombini” ovvero i fuselli in cui è avvolto il filo. Queste due fanciulle non erano altro che le figlie del re di Napoli Ferrante I d’Aragona e di Isabella Chiaromonte, nate ed educate in quella Corte e alle quali, come rileva la tradizione rinascimentale, accanto allo studio dell’arpa o del cavalcare non era disgiunto tale apprendimento di tipico ed estroso lavoro. A Isernia in tempi antichi erano, dunque, le aristocratiche e le monache a imparare l’arte del merletto alle donne di Isernia e a fornire loro tutto il necessario, dal filo al disegno. Un sistema grosso modo identico a quello seguito ancora oggi, solo che al posto della badesse si sono sostituiti imprenditori esclusivisti locali. Isernia, insieme alla vicina Pescocostanzo, fu uno dei centri da cui si diffuse il merletto. Ma nei due paesi si è però registrata, con passare dei secoli, una differenziazione di genere e di stile. Infatti mentre a Pescocostanzo il merletto viene creato con una tessitura lavorandolo in modo continuo facendo girare il pallone man mano che la trina progredisce, a Isernia è ben predisposto il disegno su carta e dal quale non si può esorbitare. Ne consegue il vantaggio di creare una precisa orditura e ornato con contemporanea lavorazione degli elementi grafici posti al di sotto. I festoncini, i reticelli di origine angioina e non durante lo svolgimento dei fuselli. Tutte queste notizie sono state descritte in un vecchio articolo dello studioso Angelo Viti dal titolo “L’arte del merletto a Isernia”. Il periodo d’oro delle merlettaie di Isernia si ebbe negli anni a cavallo tra il 1920 e il 1940. Pensate che a quei tempi erano circa 500 le donne dedite a questo lavoro. Qualcosa si inceppo nel 1938 e da allora si ruppe l’equilibrio tra le lavoratrici e i merlettai che fornivano alle donne tutto l’occorrente necessario dal filo al disegno. Una determinazione adottata il 26 aprile 1938 stabiliva che le merlettaie fossero considerate non più ditte artigiane ma semplici lavoratrici a domicilio. Questo atto fece irrigidire i cosiddetti merlettai che tolsero il lavoro alle lavoratrici del merletto che non si persero d’animo e inviarono una lettera al Podestà di Isernia. Tra le firmatarie troviamo Michelina Di Tore, Maria Matticoli, Maria Cimorelli, Chiarina Giusti, Maria D’Agnilli, Lucia Paolino, Angelina Petrecca, Anna De Caria, Maria Pacifico, Angiolina Cimorelli e Giuseppina D’Agnilli. Venendo ai nostri giorni le donne dedite al merletto sono poche. Fino al 1970 d’inverno lavoravano tra le mura domestiche al caldo del camino e d’estate al fresco dei vicoli o dei portoni chine sul loro lavoro. Il tombolo di una volta era di altra fattura rispetto a quello odierno vuoi per il filo vuoi per la maestria delle lavoratrici. Ma non per questo il tombolo odierno non va a ruba. Oggi le poche “sopravvissute” hanno capito che è meglio lavorare in proprio per poi farsi pagare a buon prezzo a coloro che vendono altrove il prodotto tipico di Isernia. Quelle poche donne di Isernia rimaste a lavorare il tombolo hanno ereditato dalle madri la virtù di questo sposalizio d’armonie che rende ricche le vetrine dei grossi centri che però non recano il nome di Isernia. Eppure tanti lavori che si trovano in negozi specializzati dei grossi centri sono nati tra il sospiro di una ricamatrice e il suono delle campane delle chiese di Isernia. Infine un ringraziamento al noto fotografo Franco Cappellari che averci fornito queste foto davvero suggestive di donne intente a lavorare il merletto davanti alla Fontana Fraterna.

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