Avvocato, economista fra i più affermati, ordinario di Diritto commerciale all’Unimol dal 2002 e direttore scientifico dell’Università delle Camere di commercio, autore di centinaia di pubblicazioni e fra i massimi esperti di società pubbliche. Da un mese Francesco Fimmano è anche vicepresidente del consiglio di presidenza della Corte dei conti. Ruolo, per i giudici contabili, analogo a quello del vicepresidente del Csm.
Professore, di cosa si occupa il Consiglio di presidenza? Di cosa si occupa lei?
«Il consiglio di presidenza è l’organo di autogoverno della Corte, il vicepresidente ha una serie di compiti sostitutivi e non. Tra l’altro – come accade al Csm – presiedo la commissione disciplinare. In verità, ho studiato questi temi da quando sedevo nel comitato tecnico-scientifico della Scuola di formazione e conosco le qualità e le grandi potenzialità dei magistrati contabili, specie in questo momento storico. Si parla tanto di spending review ma la Corte è la pietra angolare per la seria e concreta riduzione degli sprechi, degli abusi e della corruzione. In questi anni sono proliferate Autorità e Commissari vari, quando la Costituzione affida all’antica istituzione questi compiti in cui già Cavour credeva fermamente. Per i padri costituenti la Corte è il custode della “sana gestione finanziaria” del patrimonio pubblico. Il nuovo Codice della giustizia contabile rilancia le funzioni giurisdizionali e di controllo costituzionali, e va posta fine a duplicazioni e dispersioni di funzioni pubbliche».
Lei è considerato un “fustigatore”delle società pubbliche.
«Semplicemente ho visto già negli anni 90 che invece di essere utilizzate come strumento di efficientamento, le partecipate venivano usate come escamotage per violare patti di stabilità e procedure ad evidenza pubblica, specie nelle assunzioni, appalti e forniture. Poi, con il mancato consolidamento, sono diventate anche un tappeto sotto cui nascondere i deficit, in quanto le partite creditorie e debitorie tra enti e società non venivano neutralizzate contabilmente. Già dieci anni fa organizzai nell’aula delle sezioni unite della Corte un lungo confronto sul problema che sarebbe poi esploso, lanciando un allarme inascoltato».
Quindi, non è contrario in astratto?
«No, ma gli enti pubblici devono assumere la gestione di servizi, solo se sono in grado di farlo a condizioni più favorevoli e più efficienti di quelle offerte dal mercato. Ciò purché il servizio, per sua natura, non renda necessario l’intervento pubblico, per le garanzie che solo questo può assicurare (si pensi alla giustizia o alla sicurezza). Basta guardare alle grandi società pubbliche francesi o alle quotate italiane. In Italia purtroppo sono state privatizzate, molto male, grandi realtà pubbliche come Telecom, e sono proliferate società inutili che hanno prodotto catastrofi. La vicenda Telecom è emblematica, di Autostrade non parlo per ovvie ragioni. Ed anzi il sud ha bisogno di grandi società pubbliche in settori strategici e quelle rimaste sono indispensabili per attrarre investimenti, come traino soprattutto nelle neonate zone economiche speciali».
Come curatore fallimentare ha proposto azioni clamorose verso gli enti per i crack delle partecipate, a cominciare da Bagnolifutura.
«Sono ordinario di Diritto commerciale e so quanto lo strumento delle società, sin dalla Compagnia delle Indie orientali del 1602, sia stato fondamentale nel progresso dell’umanità, ma una cosa è l’uso virtuoso, altra è l’abuso che determina la doverosa sanzione ai cattivi amministratori. Per esempio, il settore del trasporto pubblico locale presenta un quadro inquietante che impatta anche sui servizi. Orbene alla clausola sociale fa da contraltare l’obbligo di fornire almeno un servizio minimo decente».
La Corte deve perseguire queste situazioni?
«Con la riforma Madia, alla Corte è affidato il compito di valutare la necessità della Pa di costituire società anche sul piano della convenienza, della sostenibilità finanziaria, della possibilità di destinazione alternativa delle risorse, della gestione diretta o esternalizzata del servizio, della compatibilità della scelta con i principi di efficienza, di efficacia e di economicità. Alla Corte spetta la valutazione e la ricognizione di tutte le partecipazioni del comparto pubblico allargato e del piano di razionalizzazione periodica delle partecipazioni. Le sezioni unite di qualche giorno fa ampliano la giurisdizione sulla mala gestio, in via concorrente.
Altro suo cavallo di battaglia, le fondazioni bancarie: sostiene che siano pubbliche.
«Non è un problema di natura giuridica, il tema è che invece sicuramente i patrimoni delle fondazioni derivano dalle banche pubbliche e quindi sono risorse pubbliche. Parliamo del vero fondo sovrano del Paese, è inammissibile che un sistema di tale portata che ha ancora influenza notevole sul sistema bancario, sia talora ostaggio di notabilati locali. Parliamo di risorse enormi distribuite ogni anno sui territori di appartenenza. Pur volendo ammettere la logica al supporto dei territori, tutto deve avvenire secondo regole di trasparenza, efficienza, legalità, non come avviene adesso. È la natura delle risorse che attribuisce la competenza ai giudici della Corte dei conti».
E allora?
«Investire i profitti delle banche in opere a sostegno delle comunità può sembrare a prima vista un progetto meritorio di moderno mecenate. Ma, tolto il velo dell’apparenza, la situazione è gestita senza alcuna trasparenza poiché qui non c’è un mecenate privato ma una istituzione che elargisce risorse pubbliche. Vi sono presidenti di fondazioni che le gestiscono di fatto ormai da 30 anni in modo da sopravvivere a se stessi. Peraltro l’obbligo di investire il 90% dei proventi nella regione di appartenenza privilegia il nord rispetto al sud del Paese. Ma se le sedi delle grandi fondazioni sono concentrate al nord, lo stesso non si può dire dei loro correntisti, o in generale della loro attività operativa. Venderei le azioni delle banche dopo averle riportate al Mef per tagliare il debito pubblico per quasi 100 miliardi, ma queste sono scelte politiche. La Corte viceversa può svolgere una funzione di moralizzazione fondamentale nel settore».
Torniamo alla spending review.
«La Corte può esserne il vero baluardo. Se non altro perché non ci sono alternative a tagliare gli sprechi se si vogliono implementare politiche espansive. Basta l’esempio della quota di acquisti di beni e servizi pubblici fatta al di fuori dalle procedure Consip. La Corte ha verificato che dei 47,4 miliardi di spesa complessiva, soltanto 9,6 sono passati per la centrale unica per gli acquisti. Si tratta, il dato è relativo al consuntivo 2017, di un misero 20%».
Crede ci siano margini?
«È un fatto inconfutabile. Nelle ultime gare sui server acquistati dalla Pa si è avuto un risparmio del 58%, sulla telefonia del 49%, per le stampanti del 40% e sull’energia del 10%. Eppure la finanziaria dello scorso anno, obbliga amministrazioni centrali, enti locali, ospedali e Usl a passare per le gare Consip. Un’azione mirata della Corte, che a mio avviso ne ha già i poteri, porterebbe a ridurre mediamente del 25\30% la spesa, parliamo di oltre 10 miliardi. Va creata una mappa dettagliata di chi, tra enti, amministrazioni e Asl, si sottrae. E poi un’azione forte di moral suasion, che sia di pungolo e incentivo. Peraltro esistono già provvedimenti della Corte e azioni delle Procure, si tratta di coordinarli e di coordinare l’azione con il governo. La spesa per consumi intermedi della Pa italiana si attesta attorno ai 90 miliardi e pesa per il 5,6% del Pil, un dato più elevato rispetto a tutti i nostri principali competitor: in Spagna la spesa per l’acquisto di beni e servizi si ferma al 5,3%, in Francia al 5,2 mentre in Germania ad appena il 4,8% del Pil. Peraltro il ricorso all’esternalizzazione va ben disciplinato, manca ancora a livello nazionale una legislazione organica, esistendo una sola norma a carattere generale e numerose settoriali. Nonostante tutto, ad oggi meno del 40% della Pa ricorre all’esternalizzazione rispetto al 90% delle grandi imprese».
Immagina una Corte con funzioni extralarge?
«Le funzioni già esistono. Negli ultimi anni il legislatore ha affidato nuovi compiti alla Corte vista la struttura capillare e le competenze. Dal 2012 ha il controllo attraverso il giudizio di parificazione del rendiconto generale delle Regioni, analogo a quanto già avveniva con quello dello Stato, la più rilevante forma di controllo ora riguarda tutte le Regioni italiane, enti territoriali o economici e società pubbliche. All’esito dell’accertamento delle irregolarità ci sono conseguenze giuridiche sulle amministrazioni, tra cui il blocco della spesa, l’avvio del dissesto guidato, il mutamento del regime di salvaguardia degli equilibri di bilancio, in virtù del quale il giudizio negativo della Corte sul piano comporta il passaggio dal regime del piano di riequilibrio finanziario pluriennale a quello del dissesto. Va solo adeguata la struttura anche nei numeri dei magistrati di carriera con concorsi, evitando l’accesso su nomina che deve limitarsi a pochissime eccellenze».
Una magistratura contabile iper tecnica.
«L’Italia nei prossimi anni dovrà introdurre il sistema di contabilità economico-patrimoniale, con l’applicazione dei principi contabili internazionali. Vanno rafforzate quindi le sinergie con gli organismi che impostano i principi – l’Oic, lo Iasb e l’Efrag – e con le omologhe magistrature contabili europee e internazionali».
Eletto dalla Camera come ‘laico’ in quota ai 5 Stelle, il suo nome era circolato anche per il dicastero della Giustizia. È grillino, professore?
«Il Movimento a differenza degli altri – si veda il Csm – ha designato solo ordinari universitari indipendenti di materie giuridiche, chieda a tutti i miei colleghi degli altri organi. D’altra parte, in passato almeno fino agli anni 70 si faceva così. Solo da qualche anno ci sono questi passaggi dalla politica alle magistrature e ritorno. Quanto alla mia elezione a vice, ha deciso il Consiglio in piena autonomia. Quanto alla Giustizia, mi pare ci sia un ottimo ministro politico, sono contrario a ministri tecnici in quella materia, e poi io sono un giuseconomista. Come le ho detto, molte delle cose che i 5 Stelle affermano da anni in materia di sprechi e corruzione trovano nella Corte uno dei referenti naturali, anzi il referente Costituzionale».
È napoletano, si sente molisano. Da docente conosce i giovani, la futura classe dirigente. Da legale conosce quella attuale. Peraltro, è stimato in maniera bipartisan. Che idea si è fatto di questa terra? Pregi e difetti.
«Io sono innamorato del Molise come sono innamorato di Napoli, siamo agli opposti che si attraggono. Si dice non puoi chiedere all’acquafrescaio se l’acqua è fresca. Il Molise è una terra meravigliosa popolata da persone semplici e per bene. Un’oasi nella quale insegno in un piccolo gioiello di Università e in cui trascorro le mie vacanze anche di studio, l’otium latino. In quasi vent’anni ho avuto formidabili soddisfazioni da centinaia di miei studenti che si sono fatti valere nel mondo. Il difetto è proprio questo, dobbiamo farli rimanere qui dopo l’Università, creando occasioni di lavoro adeguate».
Sabato, alla cerimonia organizzata dal rettore Unimol Palmieri, terrà la prolusione prima dell’intervento del vicepremier Di Maio. Si dice siate molto amici: è così?
«Del vicepremier o del rettore? Comunque, stimo entrambi da sempre e l’amicizia nata dalla stima reciproca è l’unica che prescinde dai contesti. Il sistema dei valori di un rapporto che si basa sulla stima è ben più importante dell’amicizia personale che si aggiunge al rapporto ma lascia inalterati i valori di fondo. Poi, quando hai l’onore che qualcuno che stimi chiede il tuo parere come tecnico non puoi che esserne felice. La nostra funzione di studiosi e operatori è questa o no?».
Come giudica il governo Conte: l’alleanza con la Lega e i primi provvedimenti?
«Parlarne troppo bene come parlarne male dopo due mesi sarebbe ugualmente sbagliato e strumentale. Vedo ritornare i cittadini alla politica attiva, vedo nuovamente la passione dei giovani come quando ero ragazzo, vedo una grande speranza e nella vita la speranza e la passione sono tutto. Il fatto stesso che lei mi stia intervistando su questi temi e su questa occasione per Unimol è epifanico del momento storico. Un momento così va utilizzato al meglio. Occorre tanto lavoro e tanto sacrificio. Quanto alle strategie, ne parlerò sabato nella mia prolusione».
La prolusione, appunto: lo sviluppo del Sud dall’intervento straordinario alla strategia euromediterranea. Come dire: usciamo dall’eterna ‘modalità Casmez’. Siamo pronti qui al Sud, secondo lei, a questa rivoluzione?
«La questione è più complessa. Il big push, la grande spinta alla crescita realizzata attraverso gli ingenti investimenti infrastrutturali e produttivi della Casmez, non è arrivata al punto di consentire al Mezzogiorno di camminare sulle proprie gambe, perché non è stata completata, specie per il subentro degli inutili interventi a pioggia sul territorio meridionale. Nell’epoca del miracolo italiano, il turnaround economico è stato impressionante, gli investimenti industriali nel Mezzogiorno sono cresciuti di due volte e mezzo ed il tasso di crescita del Pil è stato costantemente superiore di due punti percentuali rispetto alla media del Paese. È necessario dunque un pieno ritorno dell’intervento pubblico, non di impianto statalista, ma basato su una armoniosa ed efficace combinazione di Stato e mercato, che ponga al centro degli obiettivi di strategia industriale la funzione dell’impresa, come soggetto storico e istituzione fondamentale dell’ordinamento e del mercato. L’intervento deve essere dello Stato centrale e con pochi chiari obiettivi, senza interventi a pioggia, e integrarsi con le Regioni. Anzi, tale intervento deve integrarsi con coordinamenti di più Regioni che organizzino “uffici unici” specializzati e centralizzati: per il Molise in particolare con le Regioni dell’adriatico-centromeridionale. Ciò anche in virtù dello strumento della cooperazione rafforzata fra le stesse, ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione».

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