I suoi anni sono stati di straordinario coinvolgimento popolare. Poteva piacere o meno come presidente. Può aver fatto discutere come la sua avventura si sia conclusa in un triste pomeriggio estivo dopo una retrocessione dai professionisti e tra una conferenza stampa al Roxy e telefonate tanto infuocate quanto inutili all’allora presidente della D, William Punghellini. Ma una cosa è certa: quattro dei cinque anni di Adelmo Berardo alla guida del Campobasso hanno fatto registrare una partecipazione di gente da far invidia a tante piazze di categoria superiore. Inutile girarci intorno: pensare a quel Lupo rievoca la soddisfazione al lunedì di aprire il Corriere dello Sport e notare di aver staccato a Selvapiana più tagliandi di una gara di serie B. La curva piena. Le carovane festanti in trasferta con decine di pullman al seguito. La vittoria come unica ossessione. Le stagioni vissute con il piede sull’acceleratore. Le emozioni. Corona, Camorani o Cariello. Solo altri tempi visto che oggi intorno al catino costruito nella periferia ovest della città c’è il deserto? Un quesito che non poteva non essere rivolto al diretto interessato.

«Senza dubbio erano periodi diversi – la risposta di Berardo -. Ma le folle bisogna entusiasmarle. Non è che tutti vanno allo stadio solo perché ci sono i colori rossoblù. Poi è chiaro: ci sono  le annate negative e la gente si disaffeziona anche se è altrettanto vero che basta poco per riaccendere i cuori. Io credo che a Campobasso la fame di calcio ci sia. Gli spalti vuoti li avverto come un problema minore. A mio avviso non è che ci sono difficoltà a portare avanti le società perché alla partita non va nessuno. Non è questo il punto».

Qual è il problema, allora?

«Innanzitutto la politica. Da noi non ha mai funzionato tranne qualche eccezione ai tempi delle Dc. Quando le cose sono andate bene è solo perché qualcuno ha sopperito con i propri sacrifici. Quando ho fatto il presidente del Campobasso avevo tutti contro tanto che di recente un assessore di quei tempi mi ha addirittura chiesto scusa per l’ostilità. Prendete Benevento: lì la politica ha dimostrato amore reale per la Strega. E non è vero che la differenza l’hanno fatta solo i soldi di Vigorito o che la piazza è stata sempre esemplare. Le contestazioni e le chiacchiere ci sono state anche lì dopo le finali playoff perse o in questa stessa stagione quando il rendimento è calato nel girone di ritorno. Certi momenti sono fisiologici nello sport».

Lei ha sempre puntato a vincere. Quanto influisce questa mentalità sul coinvolgimento del popolo?

«Tanto. Soprattutto a Campobasso».

Due anni fa il Lupo ci ha provato ed è andata male. Lì si sono acuite talune criticità per la mancata risposta del pubblico in termini di incassi…

«Non metto in discussione che possa essere successo, ma non sono d’accordo con questa considerazione. Chi si avventura deve assumersi dei rischi. Certo: ognuno ha le proprie strategie. Ma se la squadra non ha vinto non possiamo prendercela con nessuno. Altrimenti chi è il padrone del club?».

Aliberti è stato un alleato del Campobasso ai tempi del salto in C. Come giudica il suo operato attuale in rossoblù?

«Bisognerebbe fare innanzitutto chiarezza: è un consulente o il patron? Però preferisco non toccare questo argomento».

Da profondo conoscitore della realtà, che consiglio gli darebbe?

«Al mio paese c’è un detto che, tradotto in italiano, recita ‘o si trebbia, o si libera l’aia’. Nel pieno rispetto delle possibilità e delle volontà di ognuno, spero non si vada verso un’altra agonia. Campobasso una squadra di giovani non la digerisce proprio, fermo restando che servirebbe un progetto. La juniores aveva giocato le finali nazionali, si sarebbe potuto intervenire su quell’organico con i giusti tasselli. Oggi vediamo che diversi obiettivi non sono stati centrati, dal risanamento del bilancio in poi. Che altro raccontiamo alla gente?».

Sulla holding che idea si è fatto?

«In teoria è una buona iniziativa. Ma serve la sostanza. Se vogliamo coinvolgere dobbiamo ripartire da una società solida, un allenatore preparato e una squadra competitiva. I debiti sono una spada di Damocle con un peso tutt’altro che secondario. A questo punto lancio una provocazione: se il presidente del Macchia regala il titolo, perché non ripartire da lì? Lo rilevi Aliberti, programmi nel tempo il risanamento dell’attuale Campobasso ma dia immediata linfa. Serve anche una svolta politica che metta insieme le persone più importanti di Campobasso. Si azzeri tutto e si riparta, cambiando magari quell’approccio che oggi sembra quasi di elemosina. Questi tornei si possono vincere senza chissà quali esborsi».

E’ l’unica soluzione per uscire dall’impasse?

«No. Ma non vedo dei Vigorito all’orizzonte. Dobbiamo scegliere: sogniamo o affrontiamo la realtà?. Inoltre a queste soluzioni non credo. Per me a comandare e ad assumersi le responsabilità deve essere uno solo. Il calcio, poi, è un’impresa atipica. Non è che compri un pastificio, cambi i macchinari o il prezzo di vendita e risolvi il problema. Nel pallone devi saperci stare e saperci fare. Non è una scienza esatta».

Durante la stagione si era riavvicinato ai colori rossoblù. Poi cos’è successo?

«Sono andato in trasferta per incontrare Silva. Chiacchierate tra amici. Come quelle con Aliberti o Perrucci. In ogni caso io all’orizzonte continuo a notare potenzialità importanti ma inespresse».

Un anno fa lei avrebbe inoltrato domanda di ripescaggio?

«Senza perdere neanche un minuto. Avremmo trovato tutte le porte aperte. Avrei detto ‘facciamo la C, ma voglio duemila abbonamenti. I 200mila euro sarebbero usciti in un lampo».

Ufficialmente è fuori dal calcio. Ma neanche tanto…

«Come potrei vivere senza questo sport? In questi mesi ho girato l’Europa. Ho molti amici e segnalo qualche calciatore. Sono stato di recente in Romania a osservare da vicino delle partite. Il Napoli sta battendo molto quel mercato. Conosco il presidente del Craiova, giocheranno in Europa League. Hanno prospetti come Ivan o Screciu che faranno carriera».

Torni con la mente al suo Campobasso. Le vengono in mente gioie, dolori o rimpianti?

«Indubbiamente c’è un mix. Ma poi prevalgono ricordi meravigliosi. Spesso accendo il videoregistratore e mi emoziono guardando quei filmati con 20mila persone allo stadio, altro che il Benevento. Rimpianti? Uno e grande: se fossimo andati in C1 sono sicuro che avremmo compiuto il doppio salto in B. Ma non mi rimprovero nulla. Abbiamo dato il massimo. Dopo il ko contro il Sora ero in lacrime. Una ragazza si avvicinò e disse che non avrei dovuto piangere perché quella squadra aveva cambiato i cuori di tanti giovani. Quella frase mi è rimasta scolpita».

Se potesse entrare per un paio di minuti all’incontro di domani allo stadio, cosa direbbe a quel tavolo?

«Smettetela di prendere per i fondelli (in realtà usa un termine più forte, ndr) i campobassani. Rivolto agli interlocutori, ovvero politici e imprenditori. Non certo alla società. Per Perrucci mi dispiace. Io posso immedesimarmi perché certe situazioni le ho vissute sulla mia pelle. Solo chi ci è passato può capire Giulio».

Come va a finire?

«Non lo so. Ma non c’è tanto ottimismo».

Cosa pensa di Falcione?

«Rispetto chiunque metta in discussione propri capitali. Ma le ultime uscite non le ho apprezzate. Avrebbe potuto gestire meglio l’ultimo periodo anche perché le decisioni le ha prese pure lui. Sarei contento se ci mettesse la faccia assumendosi le responsabilità e chiarendo eventuali incomprensioni per un nuovo progetto condiviso. E qui mi riallaccio al discorso del titolo del Macchia. La soluzione va trovata a Campobasso. Alle persone di fuori credo poco. Non me ne voglia Aliberti, che fa eccezione e con il quale ho avuto una collaborazione professionale quando ero presidente del Lupo, ma spesso sento certi nomi di altre regioni che mi fanno rabbrividire».

Stavamo dimenticando la questione stadio…

«Altra piaga. E non si ha né il coraggio né la capacità di risolverla. Sono stati assegnati da tantissimi anni 800mila euro eppure non si intravede la strada. La politica deve capire che al Sud il calcio è una cosa seria. Il Campobasso è per i campobassani quello che è il Napoli per i napoletani. Non siamo al Nord dove se c’è o meno il club locale è indifferente».

Secondo lei con un torneo di vertice si riempirebbero quei gradoni?

«In C di sicuro. Magari Capone non ci è riuscito. Ma questa Lega Pro ti fa confrontare con Lecce, Casertana, Reggina, lo stesso Foggia fino a qualche settimana fa. Con una rosa adeguata, a chi non verrebbe la voglia di tornare in curva a palpitare per il Lupo?».

Mario Colalillo

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