Una produzione indipendente per raccontare, con cognizione di causa, il passato dell’area di Capoiaccio e chiedere conto di cosa fare in futuro, andando oltre quel terreno recintato sul quale spicca un cartello inquietante. «Divieto di accesso. Pericolo contaminazioni». Il simbolo è quello della radioattività.
Giorgio Santoriello conosce quello di cui parla nel reportage- inchiesta realizzato e finanziato grazie alla sua onlus, “Cova Contro”. Il titolo è fin troppo chiaro: «Il petrolio di Cerce – I rifiuti della Montedison Selm tra Basilicata e Molise». Giorgio vive a Bolzano ma è lucano e nella sua terra la Montedison (che ora si chiama Edison) estrae ancora petrolio. Dalle Masserie Spavento di Melfi arrivavano in Molise quelle che venivano etichettate come acque reflue che venivano reimmesse (per parecchio tempo in assenza di una specifica autorizzazione) nei pozzi dismessi di contrada Capoiaccio, lì dove la radioattività registrata dall’Arpa Molise è stata definita «abnorme». La storia dei pozzi petroliferi è entrata, con un ampio corredo di documenti dell’epoca e con le risultanze delle analisi recenti, in un libricino che ripercorre i fatti dagli anni Settanta al 2015. Il frutto di un lavoro certosino di ricerca, durato decenni, animato del desiderio di andare fino in fondo dell’ex consigliere regionale Salvatore Ciocca che ha coinvolto, in questo cammino, il ministero dell’Ambiente, la Regione, l’Arpa e l’Ispra, la Prefettura e anche la Magistratura.
Cosa c’è o potrebbe esserci in quei pozzi, ormai sigillati da una colata di cemento armato? Come mai si registrano livelli di radioattività dieci volte superiori al fondo naturale del terreno? I decessi per patologie tumorali specifiche sono collegati ad eventuali sversamenti o interramenti?
Domande senza risposta e, di una ricerca più approfondita o di una quando mai opportuna bonifica, nessuno parla.
Quel libricino è finito, mesi fa, fra le mani del professore Giorgio Santoriello che ha ravvisato un collegamento fra i fatti della Basilicata e il caso di Capoiaccio, frazione di Cercemaggiore. E così è venuto in regione, si è armato di misuratori di radioattività, telecamere e droni ed è andato a Capoiaccio. Il reportage-inchiesta racconta una storia nota, riporta alla luce una vicenda mai chiarita, evidenzia la presenza di livelli di radioattività nell’area anche fuori da quel recinto, certifica la necessità di analisi più approfondite che non sono state effettuate in questi anni. Ma quelle immagini spalancano una finestra su un passato da dimenticare, sul quale non proferire parola. Polvere da nascondere sotto il tappeto.
La video inchiesta cristallizza anche la fase di notorietà mediatica del sito: le telecamere del Tg2 arrivarono in Molise ad intervistare l’allora sindaco che raccontava una storia oscura, la stessa che ai microfoni di Santoriello solo qualche mese fa ha finto di non conoscere, minimizzando la questione.
Manca il registro tumori, si lamenta un medico che ha preferito non essere riconosciuto. «Lì sotto interravano bidoni, fusti» racconta ancora il medico, che ha raccolto negli anni le confidenze di un suo paziente, operaio in quello stabilimento.
Le immagini registrate dal drone consegnano la fotografia di terreni contigui all’area radioattiva e recintata che sembra siano lavorati, quindi coltivati. «Non si potrebbe ma coltivano» conferma un altro cittadino. Ma nell’ufficio tecnico comunale, alla richiesta di chiarimenti circa il sito radioattivo di Capoiaccio, la risposta è stata: sono solo un mucchio di fesserie.
Il sindaco, ripreso nella sua stanza, non ricorda nemmeno di aver affrontato la questione anni prima, davanti alle telecamere della Rai. Non conosce i fatti, il libricino, i risultati delle analisi, il perché quell’area sia stata recintata con fondi stanziati dalla Regione dopo le pressanti richieste del suo predecessore. La polvere può tornare sotto il tappeto.

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