Alessandra Casilli non è morta solo in un tragico incidente stradale. Alessandra Casilli è morta di precariato, in un Paese che da troppo tempo considera normale l’assurdo, abituale l’ingiustizia, e accettabile l’umiliazione di chi lavora per costruire il futuro: gli insegnanti.
Aveva 54 anni, Alessandra. Insegnava matematica da oltre vent’anni. Non era una principiante, non era un’ingenua. Era una donna che sapeva cosa significava sacrificarsi. Ma nonostante l’esperienza, la dedizione e la stima dei suoi colleghi, non aveva ancora un posto fisso. Per ottenere quella stabilità che in qualsiasi Paese civile dovrebbe arrivare molto prima, Alessandra è stata costretta a sostenere l’ennesimo concorso pubblico (chissà quanti ne avrà sostenuti). A sue spese. A ore di distanza da casa. Senza tutele, senza supporto, senza un’adeguata rete di trasporti che le permettesse di viaggiare in sicurezza.
Per affrontare l’orale del concorso a Campobasso, Alessandra si è svegliata probabilmente prima dell’alba. Ha guidato per oltre 250 chilometri. Per un contratto. Per la dignità. Per potersi sentire finalmente riconosciuta dal sistema per cui ha dato tutta se stessa. Non stava chiedendo un privilegio: stava lottando per il minimo sindacale.
In cambio ha trovato la morte, in una galleria della statale 85, in Molise, una delle tante regioni italiane abbandonate dal diritto alla mobilità.
È inaccettabile. È disumano. È una vergogna nazionale.
Quanti altri dovranno pagare con la vita la follia di un sistema scolastico che non premia il merito, non garantisce sicurezza, non investe nel futuro? Perché un’insegnante che ha dato 20 anni alla scuola italiana è ancora costretta a sostenere un concorso a centinaia di chilometri da casa, dopo una carriera intera spesa tra lavagne e quaderni?
La precarietà nel mondo della scuola non è più un’eccezione: è diventata norma. Una trappola burocratica e psicologica che logora chi insegna, svuota di senso il lavoro, e alla fine uccide. In silenzio. Senza fanfare. Senza indignazione sufficiente. Eppure oggi dobbiamo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: Alessandra è morta di uno Stato che ha abbandonato chi educa. Di un’Italia che preferisce la retorica del “posto sicuro” alle vere riforme strutturali. Di una politica che da anni non ascolta il grido silenzioso di chi tiene in piedi le nostre aule.
Morire di precariato è più grave che morire di lavoro. Perché nel precariato non c’è solo la fatica: c’è l’umiliazione. La sensazione di non contare nulla, di essere sempre temporaneo, sostituibile, marginale. Come se non bastasse dare l’anima ogni giorno.
Ad Alessandra dovremmo tutti chiedere scusa. Come cittadini, come genitori, come studenti, come politici. Soprattutto come italiani. Perché ogni volta che voltiamo lo sguardo, ogni volta che accettiamo che un’insegnante resti precaria per decenni, firmiamo la condanna a morte di un’intera generazione di educatori. E con loro, della scuola stessa.
Non possiamo più restare in silenzio.
Non si può morire per un contratto.
Non si può morire per servire lo Stato.
Non si può morire di precariato.
Non in un Paese che voglia ancora dirsi civile.
Luca Colella

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*