A luglio scorso era arrivato nella parrocchia della borgata Castellone perché il vescovo gli aveva promesso che avrebbe potuto realizzare il suo progetto di un monastero di rito greco-latino. Dopo otto mesi ha deciso di andare via perché, come aveva annunciato durante un’omelia e ribadito anche nel corso di un nostro incontro, Bregantini non ha voluto più mantenere fede agli impegni presi, per cui si è sentito preso in giro. Un divorzio che addolora non poco i suoi parrocchiani, e non solo, che in questi pochi mesi, dopo una fase iniziale di diffidenza, hanno iniziato a volergli bene e ad apprezzarlo per le sue idee di evangelizzazione. Si tratta di padre Domenico Kyriakos Cantone, monaco 48enne, nativo di Ginosa (Ta). «Il mio nome monastico è Kyriakos, italianizzato Ciriaco – racconta -, ho scelto tale nome perché San Ciriaco, giovanissimo, entrò in un monastero a Gerusalemme e lo misero a fare il cuoco. La sua storia mi è subito piaciuta, anche perché ho frequentato l’Alberghiero; lui diventò un anacoreta (un religioso che abbandona la società per condurre una vita solitaria dedicandosi all’ascesi, alla preghiera e alla contemplazione), un grande Santo, Kyriakos da cui prende il nome la domenica, in poche parole il mio nome di battesimo Domenico in latino traslitterato, in greco è Kyriakos. Da 15 anni sono prete, sono l’ultimo prete del pontificato di Giovanni Paolo II, ho preso i voti la sera in cui è morto il Papa. Mi consacravo mentre era a terra prostrato, nel mio paese Ginosa in provincia di Taranto, Diocesi di Castellaneta, come apostolo dell’ecumenismo, dell’unità dei cristiani perché nel mio cuore ho sempre avuto un amore per l’Oriente. Da piccolo, già a sei anni e mezzo, giocavo a fare l’eremita nelle nostre grotte, essendo Ginosa una piccola Matera, da cui dista venti chilometri. Abbiamo tutte le grotte affrescate alla bizantina, essendo state abitate dai monaci bizantini e da quelli basiliani – ha proseguito -. La provincia di Taranto, il cosentino, costituivano la Magna Grecia, quindi si parlava il greco, si celebrava in greco. Successivamente la corrente della chiesa latinista che era molto forte e ricca, impose politicamente il suo rito. Culturalmente, però, siamo rimasti molto legati alle tradizioni greche, tant’è che in tantissimi luoghi si celebrano e si venerano delle icone mariane, da Monopoli a Conversano, da Bari a Santa Maria di Leuca, come anche nel brindisino, nel foggiano e altri centri. Nel dna della religiosità popolare comunque la grecità è rimasta come del resto i riferimenti bizantini». Nella sua diocesi pugliese, padre Domenico ha avviato una fraternità monastica e anche laicale. «Essa però non partiva perché ci mancava il luogo, ci mancava anche la fiducia di un vescovo che accogliesse questa comunità con l’intento poi di diventare una fraternità monastica bi-rituale, cioè di rito bizantino e di rito latino, legati all’ortodossia, quindi all’Oriente e all’Occidente, perché così vedeva la Chiesa Giovanni Paolo II, cioè a due polmoni. Mi sono rivolto a più vescovi, e monsignor Bregantini ha accettato il mio progetto. A luglio dello scorso anno sono venuto a Campobasso tre volte, sono stato accolto nella Diocesi di Campobasso-Bojano di comune accordo con il mio vescovo. Tra i due presuli è stato sottoscritto il contratto che per un anno sarei venuto in Molise, per continuare la fondazione della mia fraternità che in Puglia ha già un’approvazione canonica – sottolinea padre Domenico -, inoltre ho il bi-ritualismo concessomi proprio dalla Congregazione Pontificia. Posseggo dunque le benedizioni della Chiesa, ciononostante il vescovo Bregantini che, in un primo momento aveva condiviso il mio progetto, ha deciso di cambiare idea non mantenendo fede alle promesse fatte, evidentemente era solo interessato ad un prete per la borgata Castellone, non al monaco o ai monaci». Inizialmente lo aveva portato in diversi paesi della diocesi per fargli scegliere il luogo, scelta che cadde su Santa Maria di Monteverde a Vinchiaturo, un antico monastero, in parte diroccato, probabilmente a causa della guerra o per il terremoto. «C’erano poche stanze, mi sarei comunque adattato e piano piano mi sarei insediato con i novizi, ed avrei iniziato la vita monastica fatta di silenzio, lavoro e di accoglienza delle anime, perché questo è il carisma che molti mi riconoscono, la disponibilità ad accogliere ad ascoltare le anime che solo pochi preti fanno, tant’è che si sta perdendo proprio l’uso della confessione perché si è persa l’abitudine dell’ascolto. La gente più che essere confessata ha bisogno di essere ascoltata, accolta, accompagnata, consolata, corretta – sottolinea -. Questo lo fa lo starez, cioè il padre, è questa vocazione che ho sposato dall’ortodossia. Mi sono fatto monaco, ho la tonsura monastica ortodossa, sono monaco a tutti gli effetti. Ho ricevuto la consacrazione in un monastero ortodosso dove nella tradizione monastica, un monaco fa monaco un’altra persona. Ho indossato l’abito angelico, perché così si chiama il nostro abito e quindi attualmente la gente mi vede con il calimafio (cappello), ogni tanto metto il velo monastico che è proprio ortodosso–bizantino. Tra le attività, oltre all’ascolto delle anime e alla liturgia, abbiamo l’iconografia; sono maestro iconografo, ma più che maestro sono uno che riporta, nella continuità con il passato, ciò che io stesso ho ricevuto, quindi l’arte bizantina è teologia, spiritualità presente in ogni icona. Credevo di aver trovato un terreno fertile e credo ancora che lo sia il Molise perché è una regione che ha bisogno di spiritualità, di cultura non perché non ce ne sia, ma perché ha bisogno di un risveglio di cultura e spiritualità nel senso unico del termine, perché magari la gente sa leggere e scrivere ma non sa leggere l’arte bizantina che è stata sempre Biblia pauperum (raccolta di immagini medievali che rappresentano scene della vita di Gesù con i corrispondenti tipi profetici) per le persone semplici, gli affreschi, le icone, i quadri nelle chiese. Il mio modo di evangelizzare quindi si basa attraverso le icone, facciamo scuola di iconografia, ma accanto c’è anche una scuola di spiritualità di cui oggi i fedeli hanno bisogno, dove noi insegniamo l’arte della Esichia, cioè della pace del cuore, la preghiera – spiega padre Domenico -. Nella promessa di questo santuario il vescovo mi avevo detto di appoggiarmi a Castellone, perché aveva bisogno di un prete, nel frattempo avrebbe fatto fare i lavori a Monteverde perché ci sono infiltrazioni d’acqua dal tetto e poi mi sarei dovuto trasferire lì. Successivamente Bregantini ha cambiato idea, mi ha detto che dovevo rinunciare al progetto del monastero e continuare a fare il prete perché qui la gente mi vuole bene, e che lui non aveva altri preti da mandare qui, e che non poteva più darmi il santuario di Monteverde perché ce l’ha in mano un’associazione con la quale non vuole litigare. Gli ho risposto con grande dispiacere che avrei tolto il disturbo perché non ho intenzione di cancellare la mia vocazione monastica in quanto butterei via tutto ciò che è il risultato della mia vocazione, l’iconografia infatti è il risultato della mia vocazione». Vista l’impossibilità di concedergli l’antico monastero di Monteverde, il vescovo l’aveva invitato ad attivarsi per la ricerca in zona di una struttura idonea quale sede monastica, purtroppo senza alcun risultato. Il religioso di Ginosa aveva chiesto in cambio la casa parrocchiale di Civita Superiore che è in uno stato di abbandono e di degrado, che lo stesso monaco avrebbe ristrutturato a sue spese, ma anche qui ha trovato un muro alzato nonostante la disponibilità del parroco del borgo. «A Castellone avevo anche trovato qualche struttura idonea, però sia per il fatto che il proprietario aveva dei progetti sull’immobile e sia perché qualcuno è timoroso e non mi conosce ancora bene, non sono riuscito a reperire un fabbricato utile per il mio progetto. D’altronde mi sono messo nei panni di queste persone, tutte ottime e brave». Quando all’inizio di novembre padre Domenico è arrivato a Castellone insieme ad un altro monaco, la domenica in chiesa erano presenti solo una quindicina di fedeli, oggi, grazie al loro duro lavoro dell’accoglienza e dell’ascolto, di messe nei giorni festivi ne celebrano due limitando il numero dei partecipanti. Durante la settimana numerose persone, diverse provenienti anche da Campobasso, si recano da questi monaci a confessarsi, a chiedere consiglio, oppure solo per avere una benedizione, per essere consolate. «Credo che qui in Molise la nostra presenza sia necessaria, non dico la mia persona, perché mi voglio mettere da parte, ma la presenza monastica ritengo che sia importante – aggiunge -. Se al vescovo non va bene la mia persona, pregherò che vengano altri monaci nel Molise, perché è una regione che ha bisogno di una presenza monastica. I vescovi devono distinguere queste due necessità: la necessità del prete tappabuchi nelle parrocchie, la necessità spirituale di una presenza, perché da quando sono arrivato, dal primo novembre, non mi sono preoccupato solo di officiare i sacramenti, ma sono una presenza, cosa ben diversa. La gente viene volentieri a Castellone perché c’è una presenza, noi apriamo la mattina alle 7 e chiudiamo alla sera alle 19, le persone che vengono mi trovano o in laboratorio o in confessionale per ascoltare le anime, chi viene trova sempre qualcuno. I vescovi devono comprendere la necessità della presenza dei monaci sul territorio, il monaco non potrebbe essere parroco, il monaco può aiutare una parrocchia, ma se gli viene data una parrocchia lo annulli nella sua vocazione. Avrei potuto fare anche il prete solo quell’ora la domenica, tenendo poi chiusa la chiesa e farmi i fatti miei, ma non sarei più un monaco, perché il monaco, soprattutto quello ortodosso, non è chiuso dietro una grata come il monachesimo latino, non c’è la clausura, il monaco ortodosso-bizantino, non ha la porta alla sua cella, la gente, i figli spirituali entrano, parlano, ricevono e vanno via. Io la porta della chiesa non la posso chiudere, ma se questa è solo una parrocchia allora non potrò fare l’amministratore». Padre Domenico, infine, parla del suo futuro. «Ho già messo un piede fuori, ho chiesto ad altri vescovi se vogliono condividere il mio progetto, voglio andare via subito perché ho un programma da realizzare, non sono a cui piace perdere tempo, perché il tempo che mi è stato dato non mi appartiene, appartengo a Cristo, alla Chiesa, alla storia. Il vescovo non mi voluto dare nessun’altra realtà, anche se ci sono. Ho cercato di trovare anche una casa in affitto, ma nessuna di quelle che ho visitato è adatta per farne un monastero, anche se per poco tempo. Con tanta pace nel cuore e serenità, senza rancori, purtroppo lascio, lascio con il malessere che vivo interiormente perché tutta questa gente ha bisogno». Padre Domenico così conclude: «Ho dato le dimissioni anche se non ancora per iscritto, però tramite mail ho detto al vescovo di lasciarmi libero perché non accetto di vedere annullato il mio progetto che inizialmente era stato condiviso». Per la cronaca monsignor Bregantini gli ha risposto che è libero di andare via quando vuole, senza spendere una parola per trattenerlo. Una presenza monastica che in questo momento delicato sarebbe stata importante per l’intera città di Bojano vista la sua situazione socio-economica particolarmente critica.
Enzo Colozza

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