Mi chiamo Marida Marchese, sono la figlia del dottore, e professore, Raffaele Marchese meglio conosciuto come Lello.
Storico dirigente, responsabile territoriale del servizio di Farmacia Asl e dell’ospedale Cardarelli di Campobasso, nonché docente di Farmacologia alla Cattolica, dalla fine anni 70 al 2010 circa.
Scrivo per denunciare pubblicamente la morte di mio padre, avvenuta il 31 maggio 2025, al termine di un calvario durato 10 lunghissimi mesi, cominciato con una semplice caduta e sfociato in un incubo di malasanità, disorganizzazione ed indifferenza.
Un errore fatale: una diagnosi superficiale
Ai primi di maggio 2024, mio padre si reca al Pronto soccorso del Cardarelli dopo una caduta. Viene visitato da una dottoressa in servizio al momento, che formula una diagnosi di semplice contusione e prescrive un antinfiammatorio. Solo qualche settimana dopo, a seguito dell’aggravarsi dei dolori, si scopriranno tre microfratture all’acetabolo che la dottoressa non aveva rilevato dai primi raggi X. Un errore diagnostico che ha compromesso ogni possibilità di recupero precoce.
Un’attesa inaccettabile e un’operazione tardiva
Dopo una lunga degenza domiciliare, viene trasferito al reparto di Riabilitazione, ma nel frattempo la testa del femore sinistro va in necrosi. Passano luglio e agosto nell’attesa estenuante di un intervento di protesi d’anca, che verrà eseguito solo il 26 agosto 2024 senza alcuna terapia antibiotica preventiva. Mio padre era anziano, diabetico, vulnerabile: ogni ora di attesa era una condanna. Nessuno ha preso in considerazione il rischio di una degenza prolungata in quelle condizioni.
Inizia il calvario delle infezioni
Dopo l’intervento, due sacche di trasfusione e nessun controllo adeguato, mio padre viene dimesso con cure domiciliari. Il primo infermiere per la medicazione arriva a casa dopo dieci giorni. La ferita mostra subito un ascesso. Viene portato in day hospital, e dimesso senza preoccupazione. Servirà successivamente a distanza di qualche giorno, l’allarme dell’infermiere domiciliare, preoccupato dell’infezione, per riportarlo nuovamente in ospedale. Viene ricoverato, sottoposto a toelettatura chirurgica e avviata una terapia con Cubicin per un’infezione multipla da stafilococco aureus, fragilis e subtilis. È il primo ricovero lungo. Da lì, la situazione non farà che peggiorare.
La cancrena, il caos, l’indifferenza
Rimandato a casa a ottobre, dovrebbe ricevere una visita vascolare per le piaghe ai piedi. La dottoressa arriva a gennaio 2025, quando la cancrena molle ai piedi si è già manifestata. A febbraio, dopo l’ennesimo emocromo di controllo mio padre presenta valori preoccupanti e scompenso diabetico. Il 118 lo riporta al Pronto soccorso, con molta ritrosia dell’infermiera che presidiava l’ambulanza (mi domando a che titolo dato che il ricovero urgente era stato chiesto dal medico curante!!) dove resta dalle 9 alle 19 senza ricevere aggiornamenti. Alle 19.30 mi dicono finalmente che avrebbero trattenuto mio padre per una polmonite. E che avrei potuto vederlo il giorno successivo. Alle 20.30, il tempo di aver fatto ritorno a casa, mi richiamano al cellulare per dimetterlo. Al cambio turno sicuramente le informazioni non erano state passate. Sono entrata in contrasto con l’ennesimo medico in servizio che pretendeva che io facessi fare a mio padre le flebo di ferro a casa, incurante del fatto che tale pratica è vietata per legge. Solo l’intervento dei Nas, che ringrazio per il loro impegno, permette finalmente il ritorno in reparto di ortopedia con diagnosi di osteomielite acuta. Li viene abbandonato per circa due giorni senza ricevere nessuna cura (tranne quelle che io stessa gli ho somministrato). Un reparto allo sbando con un primario ormai in pensionamento. Il reparto resterà in un limbo fino all’avvicendamento del nuovo dirigente. Subentrano nuovamente i Nas e mio padre viene trasferito a Medicina generale. Lì riceve le prime cure e viene eseguito un tampone per la somministrazione dell’antibiotico selettivo. Un tampone i cui risultati abbiamo atteso circa 10 giorni! Si inizia con uno a largo spettro, continuato poi per circa 2 settimane. Di lì viene poi spostato a Riabilitazione dove continua le terapie. Le piaghe ai piedi diventano sempre più severe a cui si aggiunge quella sacrale. Che di lì a poco vulcanizzerà.
La fine: tra burocrazia e abbandono
Viene trasferito a Larino per la camera iperbarica. Il personale medico e il suo staff, si dimostrano da subito umani e competenti. Ma ormai è tardi. Mio padre aveva contratto una infezione da acinetobacter baumanii. L’unica opzione rimasta sarebbe stata l’amputazione degli arti. Una scelta che abbiamo rifiutato. Torniamo a casa. Inizia la fase finale, la più dolorosa: cure domiciliari tra burocrazia paralizzante e diritti negati. Letto ospedaliero mai arrivato. Terapia del dolore richiesta, mai attivata. Nessuna visita specialistica. Solo gli Oss e gli infermieri si prendono cura di lui con professionalità e umanità.
Mio padre si spegne con piaghe sacrali al IV stadio, cancrena, dolori atroci e nessun conforto medico. Lucido fino alla fine. Deluso, devastato. Ho visto le sue lacrime. Le prime in tutta la mia vita.
Un uomo che ha costruito la sanità molisana
Mio padre ha formato intere generazioni di infermieri dal 1980. Era un punto di riferimento per il Cardarelli, quando ancora era un faro della sanità molisana. Quando medici del calibro dei dottori Testa, Petrarca e Barone ne guidavano le sorti. Era rispettato, stimato, amato. Passando in reparto, alcuni infermieri dicevano: «Ma questo è il dottor Marchese… dovrebbe essere trattato con i guanti, con rispetto».
E invece è stato abbandonato. Proprio in quella struttura a cui ha dedicato una vita intera. Per una tragica legge del contrappasso, il Cardarelli gli ha tolto tutto: la salute, la dignità, la vita.
La mia voce, per tutti
Non scrivo solo per lui. Scrivo per tutte le famiglie che entrano in quell’ospedale e vedono i propri cari uscire in una bara. Per chi viene trattato come un numero, per chi muore di setticemia, di ritardi, di incuria. Per chi ha visto svanire l’eccellenza che un tempo rappresentava il Cardarelli. Chiedo rispetto, riforma, responsabilità. Chiedo un’indagine seria. E giustizia. Ma la vergogna più grande, l’umiliazione più atroce di questo lungo calvario, resta questa: che il dottor Raffaele Marchese – il primo a introdurre al Cardarelli di Campobasso il concetto di terapia del dolore, quando ancora pochi ne capivano il valore umano e medico – sia morto proprio di dolore. Dolore crudo, feroce, insopportabile. Un dolore mai lenito da quella stessa terapia che lui aveva difeso con coraggio, lungimiranza e competenza vent’anni fa.
È morto aspettando ciò che aveva insegnato agli altri. È morto tradito dalla sua stessa casa professionale, quel Cardarelli e il sistema sanitario molisano che un tempo era eccellenza e ora è scempio, disfatta, vergogna del Molise e dell’Italia civile.
Mio padre non si è lamentato. Non ha chiesto pietà. Ha portato addosso il peso del disonore di un ospedale che non riconosce più i suoi figli migliori. È stato sepolto dalla mediocrità, dall’ignoranza, dalla negligenza di chi ha dimenticato cosa significhi essere medico e un professionista serio, illuminato! Questo grido, il mio grido, non si spegnerà qui. Parlo per lui, per tutti i malati dimenticati, per ogni famiglia devastata da questa indifferenza criminale.
Perché la sua morte sia l’ultima così. Questa non è solo la storia di mio padre. È la storia di una sanità che sta morendo. Con tutti noi dentro.
Marida Marchese

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