In un’epoca in cui l’informazione è stata svuotata del suo significato originario, fagocitata da post scritti con i pollici e non con il cervello, ci ritroviamo sempre più spesso a dover separare il grano dal loglio. Un lavoro ingrato, perché il loglio abbonda, e lo spargono a piene mani gli stessi che credono che un like sia prova, una foto sia verità, una didascalia sia inchiesta.
C’è una frase – dura, netta, irrimediabile – del grande Umberto Eco che risuona come una sentenza scolpita nella pietra: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli…». E no, non c’è nulla da aggiungere. Solo da constatare quanto fosse profetico.
Eccoci dunque a Campobasso, con l’ennesima tempesta in un bicchier d’acqua. Una Fiat Panda dell’Asrem viene fotografata, la foto finisce sui social e diventa subito sospetto, insinuazione, processo pubblico. Il teatrino è sempre lo stesso: un “utente”, che scambia la tastiera per una toga da giudice, pubblica un’immagine con la solita domanda retorica, costruita per insinuare il peggio. Domande che non cercano risposte, ma solo indignazione da distribuire come pastura ai seguaci.
Ma stavolta, a finire nel tritacarne della superficialità è un nome che – in Molise, e non solo – meriterebbe solo silenzio reverente e rispetto: Mariano Flocco.
Non servono aggettivi roboanti per descrivere ciò che è evidente agli occhi di chiunque abbia varcato la soglia dell’Hospice di Larino: quel luogo, impregnato di umanità e dolore, è anche il tempio quotidiano del sacrificio silenzioso di Flocco. Chi ci ha messo piede sa che lì non si cura solo il corpo, ma anche l’anima. E Flocco è il custode di questo miracolo quotidiano.
In un’Italia in cui troppo spesso la sanità è sinonimo di disservizi, ritardi, menefreghismo, Mariano Flocco rappresenta l’eccezione che ci fa credere ancora nella medicina come vocazione. Lavora anche 24 ore al giorno (e non è un’iperbole!), percorre centinaia di chilometri non per hobby, ma per accompagnare chi sta lasciando questa vita con dignità, con umanità, con amore. Fa ciò che molti medici si sono dimenticati persino di sognare.
Che un uomo del genere debba essere difeso da insinuazioni partorite da chi vive di bile e clic, è una sconfitta collettiva. È il segno che stiamo perdendo la misura delle cose. Che non esistono più confini tra verità e fango, tra notizia e maldicenza, tra diritto di critica e diffamazione.
No, non esiste la “libertà di parola” quando questa è usata per ferire, distorcere, diffamare. Quello è solo abuso. È veleno sparso nei pozzi della convivenza civile da chi, spesso protetto da una tastiera e un nome falso, non sa nulla di responsabilità e ancora meno di umanità.
A loro, non va concesso nemmeno l’onore di una risposta. Perché rispondere significherebbe alzare la polvere con cui si nutrono.
A Mariano Flocco, invece, va detto grazie. E scusaci. Scusaci se qualcuno ha provato ad infangare ciò che è sacro. Scusaci se ancora dobbiamo spiegare la differenza tra un uomo e un avatar. Tra un medico e un urlatore. Tra un santo laico e un fabbricatore seriale di fake news.
Mariano non ha bisogno di difensori. Ha dalla sua i fatti, le vite accompagnate, le mani strette nell’ultimo respiro, gli occhi lucidi di chi resta. Ma noi abbiamo il dovere di non restare in silenzio. Perché quando si attacca un uomo come lui, non si colpisce solo un professionista: si infanga la parte più nobile di noi.
E quella, almeno quella, va protetta. Con le unghie e con le parole.
Luca Colella

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