C’è un momento in cui le parole non bastano più. Un momento in cui il disagio dei cittadini, la frustrazione degli operatori sanitari e l’impotenza delle istituzioni locali diventano insopportabili. Quello che sta accadendo in Molise, con il 118 ridotto al lumicino e ospedali in affanno cronico, è l’emblema di una crisi profonda, strutturale, che nessuno ha il coraggio – o l’onestà – di affrontare fino in fondo.
Alla conferenza dei sindaci di mercoledì sera si è discusso dell’emergenza sanitaria e, in particolare, della carenza drammatica di medici per le postazioni del 118: ce ne vorrebbero 96, ce ne sono solo 28. Una realtà che non è più sostenibile. Ma ciò che più inquieta non è la constatazione della crisi – quella è evidente a tutti – bensì il coro di soluzioni di facciata, di proposte estemporanee e irrealizzabili, di parole vuote che riempiono i comunicati senza mai trasformarsi in atti concreti.
Eppure, va detto con altrettanta chiarezza: la direzione strategica dell’Asrem, i commissari della sanità e la stessa Regione Molise non stanno a guardare. Hanno messo in campo ogni sforzo possibile, nei limiti di un sistema commissariato e di risorse estremamente ridotte. Dai bandi all’assunzione diretta, dalla formazione al ridisegno dei modelli organizzativi, si sta tentando ogni strada. Ma quando si ha a disposizione un cantiere inagibile e solo qualche attrezzo spuntato, è difficile costruire qualcosa di stabile. E chi lavora in queste condizioni merita almeno il riconoscimento dell’impegno e della buona fede.
Leggo le prese di posizione dei sindacati, come quella dello SMI, che giustamente rivendicano dignità e tutele per la professione medica. È sacrosanto: chi salva vite umane merita di essere pagato il triplo. Ma è altrettanto sacrosanto che chi ha giurato di esercitare la medicina secondo scienza e coscienza, chi ha pronunciato il giuramento di Ippocrate, non può sottrarsi alla responsabilità morale di servire i territori dove più forte è il bisogno.
Non si può invocare la centralità del paziente solo quando conviene, e poi tirarsi indietro perché «non è conveniente partecipare a un bando». Non è giusto. Non è deontologicamente accettabile. Non è più tollerabile.
E la politica? Da trent’anni cambia colore ma non cambia approccio. I governi regionali che si sono succeduti – tutti, nessuno escluso – hanno dimostrato di non avere alcuna visione programmatica. Nessun investimento serio, nessuna pianificazione dei fabbisogni, nessuna politica incentivante. Il risultato è un sistema sanitario fragile, poco attrattivo, destinato a svuotarsi giorno dopo giorno. E ad ogni bando andato deserto si alza il solito polverone, seguito dal nulla.
Servono scelte coraggiose. La prima? Smetterla di pensare che ogni piccolo comune debba avere il suo ospedale o il suo Pronto soccorso. In una regione con meno di 288mila abitanti non è più sostenibile. Meglio due ospedali veri, attrezzati e funzionanti, che cinque mezze strutture senza personale e senza strumenti.
La seconda? Come sta pensando di fare l’Azienda sanitaria, ridare dignità e ruolo agli infermieri, figure professionali qualificate e capaci, che se ben formate e coordinate possono davvero fare la differenza. Non possono sostituire i medici, certo, ma possono essere parte integrante della risposta all’emergenza. Basta pregiudizi, basta resistenze corporative.
E infine, la terza: parlare con verità ai cittadini. Spiegare che la sanità si salva solo se ognuno fa la sua parte. Se un utente rifiuta una prestazione a Termoli perché vuole farla a Campobasso, contribuisce a ingolfare il sistema. Se non siamo disposti, tutti, a qualche sacrificio, il diritto alla salute resterà un’illusione.
La situazione è drammatica, ma non ancora irreversibile. A patto che si smetta di giocare a chi la spara più grossa sui social e si cominci davvero a ragionare su ciò che si può e si deve fare.
Non domani. Oggi.
Luca Colella