Non ci sono parole abbastanza forti, né abbastanza giuste, per raccontare il vuoto che lascia la scomparsa improvvisa del professor Gianni Capobianco. Un dolore personale – profondo, sordo, improvviso – che si fa immediatamente collettivo, condiviso da tutta la redazione di Primo Piano Molise, che ha avuto l’onore di conoscerlo, ospitarne la penna, ascoltarne il pensiero.
Gianni – per me che l’ho incrociato da vicino – era molto più che un professore universitario o un ex campione di basket. Era un uomo silenziosamente straordinario. Di quelli che non fanno rumore, ma restano. Di quelli che non amano i riflettori, ma accendono la luce. Taciturno, riservato, mai una parola fuori posto. Gianni era così anche quando, da ragazzo, incrociava il mio cammino con quel fisico da gigante buono e lo sguardo pieno di pensiero. Era già “adulto” nei modi, nella profondità, nel senso di responsabilità. E lo è rimasto, con coerenza incrollabile, per tutta la vita.
Nelle sue righe – che ho pubblicato con orgoglio crescente – si rifletteva tutto questo: una mente brillante, una capacità di analisi lucida e spietata, una penna arguta, ironica e mai banale. Quando mi scrisse per la prima volta, dopo decenni di silenzio, proponendomi il suo primo pezzo “Da Lucera a Stellantis”, mi fu subito chiaro che avevo di fronte non solo un vecchio e ritrovato amico, un lettore attento ma una voce da ascoltare. E che voce.
Gianni sapeva affondare la lama nel ventre molle di un sistema immobile, sapeva denunciare senza alzare i toni, ma con argomentazioni inattaccabili, sorrette da una cultura vasta e profonda. I suoi articoli erano scomodi, certo. Ma mai provocatori per il gusto di esserlo. Erano un invito alla riflessione, all’azione, al riscatto di una terra e di un popolo troppo spesso dimenticati anche da sé stessi. I suoi appelli alla classe dirigente – sapientemente nascosti tra le righe, come solo i grandi sanno fare – sono rimasti purtroppo senza risposta. Ma non senza eco.
Era impossibile restare indifferenti alle sue analisi, ai suoi richiami alla storia, al suo modo di leggere il presente con gli occhi del passato e le lenti della matematica, la sua disciplina. Lo faceva anche nei suoi scritti accademici – come nel volume “Che c’azzecca. Pretesti matematici per parlare di Molise. E viceversa” – con la stessa identica passione con cui si dedicava alla comunità, ai giovani, allo sport, alla sua terra.
Perché Gianni Capobianco non è stato solo professore. È stato educatore, allenatore, amico, padre, fratello, guida. Ha dato tutto sé stesso alla pallacanestro venafrana e regionale, contribuendo con visione e spirito pionieristico a costruire un movimento che ancora oggi porta la sua impronta. Lo ha fatto anche nella sua parrocchia, nel mondo dell’educazione, ovunque ci fosse bisogno di costruire, spiegare, condividere.
La sua morte lascia un vuoto difficile da colmare. La telefonata che mi annunciava la notizia è stata un pugno nello stomaco, un colpo improvviso che mi ha lasciato muto. E impotente.
Oggi voglio dirgli grazie. Non solo per quello che ha scritto, ma per quello che è stato, per ciò che mi ha trasmesso e ci ha trasmesso, per il coraggio gentile con cui ha affrontato le battaglie culturali, civili, morali. Le sue parole continueranno a vivere nelle nostre pagine, e da oggi ogni denuncia, ogni presa di posizione, ogni riflessione profonda su questa terra porterà anche la sua firma ideale.
Sì, Gianni. Hai ragione tu. La storia la scrivono i vincitori. Ma la verità, quella, la possono raccontare solo gli uomini liberi. Come te.
Addio, prof.
Continueremo a combattere anche per te.
Luca Colella