Nell’Aula magna dell’Università degli studi del Molise, tra applausi, occhi lucidi e il profumo delle rose regalate ai neo-laureati, è andata in scena l’ennesima lezione: non una lezione accademica, ma una lezione di vita, di speranza, di dignità. Diciotto giovani proclamati medici. E attorno a loro una folla compatta, vibrante, festosa. Non c’erano ministri, né sottosegretari. Non si discuteva di riforme epocali né di piani industriali da miliardi. Eppure, c’era un pubblico molto più numeroso e attento di quello che si presenta ai convegni pomposi dei politici molisani. Un segnale chiaro, netto: c’è ancora qualcosa che commuove e unisce. E non è la politica.
Chi scrive, da cronista disilluso e testimone del declino, si è ritrovato a prendere appunti tra una tesi e l’altra. Ha ascoltato con attenzione. Ha osservato i professori che presentavano con orgoglio i loro studenti, ora colleghi. Ha scorto nei sorrisi e nelle voci tremanti il senso profondo di un percorso: dietro ogni “dottore magistrale in Medicina e Chirurgia” si nasconde una storia di sacrifici, notti insonni, lacrime e determinazione. Storie spesso molisane, figlie di questa terra dura, bellissima e dimenticata.
Mi hanno colpito, e non poco, la qualità delle esposizioni, la proprietà di linguaggio, la maturità scientifica e umana di questi ragazzi. Forse perché, confesso, non me l’aspettavo. Perché siamo talmente abituati a raccontare il peggio – le ambulanze che non partono, i reparti chiusi, i concorsi deserti – che abbiamo smesso di credere che da questa terra possano ancora germogliare fiori buoni.
E invece sì, eccoli qui. Giovani formati in Molise, nel nostro ateneo, nella nostra sanità tanto bistrattata. Giovani che, nella confusione di fine cerimonia, tra strette di mano e abbracci, sussurravano un desiderio semplice: «Vogliamo restare». Magari dopo la specializzazione. Magari se ci fosse una prospettiva concreta, un segnale, una strategia.
Ma chi dovrebbe dare seguito a questa speranza? Chi dovrebbe trattenere queste energie, prima che fuggano via verso Nord o verso l’estero? La risposta è banale quanto drammatica: la politica. Sì, proprio quella classe dirigente che, mentre i nostri ragazzi studiavano nei laboratori o nei reparti, riusciva a non programmare nulla, a tagliare servizi, a disfare la sanità pubblica con la leggerezza con cui si cambia casacca tra una legislatura e l’altra.
Ci sarebbe tanto da dire su quanto è stato fatto per allontanarli, piuttosto che trattenerli. Ma oggi non è tempo di accuse. È tempo di ringraziamenti. A cominciare dal rettore uscente Luca Brunese e dal suo successore Giuseppe Peter Vanoli, perché sotto la loro guida l’Unimol ha continuato a formare non solo medici, ma “donne” e “uomini” e cittadini consapevoli. A tutto il personale, dai docenti agli amministrativi, da chi tiene aperte le aule a chi coordina i ragazzi durante i tirocini nei reparti. Dietro ogni laurea, c’è una squadra. Dietro ogni medico, c’è una comunità.
Certo, l’Università non è perfetta. Anche lì ci sono cose da sistemare, da innovare, da rivedere. Ma è una delle poche istituzioni che continua a funzionare, a produrre futuro, a offrire una via d’uscita da questa spirale di rassegnazione che avvolge il Molise. E allora sì, immaginiamolo pure questo Policlinico, immaginiamolo davvero, non come una favola elettorale, ma come un progetto di sopravvivenza per una regione che rischia l’estinzione sanitaria.
Ogni tre, quattro mesi si laureano giovani medici. Ogni tre, quattro mesi il Molise potrebbe riappropriarsi di un pezzo di sé, se solo fosse capace di dire: restate. Non con le parole vuote dei proclami, ma con contratti dignitosi, borse di studio, specializzazioni in sede, percorsi chiari. Non è difficile. È solo una questione di volontà. E forse di amore.
Perché un medico che resta non è solo un numero che copre una carenza in organico. È una risposta viva, concreta, a quella domanda silenziosa che tutti ci facciamo: c’è ancora qualcosa per cui vale la pena restare? I ragazzi che l’altro giorno ho visto in toga e tocco, lo hanno sussurrato: sì, vale la pena. Ma non per sempre. Il tempo della speranza non è infinito.
Lo scrivo da anni: il Molise è una terra bella e maledetta. Bella quando la guardi con gli occhi di chi la ama. Maledetta quando la osservi attraverso l’indifferenza di chi la governa. Ma se a ogni sessione di laurea in Medicina, anche solo due di quei ragazzi scegliessero di restare, allora qualcosa, forse, comincerebbe a cambiare.
Perché oggi più che mai, quel “Dottore” proclamato dalla commissione accademica non è solo un titolo. È un atto di fede. È una preghiera laica sussurrata tra le aule universitarie e i corridoi vuoti degli ospedali: «Aiutateci a restare. Aiutateci a curare questa terra».
Luca Colella

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