A pochi giorni dalla sentenza che lo scorso 19 giugno ha sancito, almeno per ora, l’esito del processo contro gli assassini di Sonia Di Pinto, la madre Antonietta Aniello è tornata a Petacciato. Qui ha incontrato l’amica di sempre, Gianna Di Lena, con cui ha realizzato una testimonianza diretta, intensa e toccante, per raccontare cosa è accaduto in Lussemburgo. Un modo per tenere vivo il ricordo di Sonia, e per ribadire una battaglia che continua.
Due dei rapinatori che tolsero la vita alla figlia sono stati condannati a 30 anni, ma con cinque di sospensione condizionale. Il terzo imputato, invece, è stato assolto. Ma Antonietta non si arrende: «Non mi fermerò mai. Sonia era mia figlia, ma oggi rappresenta tutte le donne uccise. Io voglio la verità».
Il coraggio di una madre che ha perso una figlia in modo brutale. L’attesa di giustizia, la fede come forza quotidiana e un dolore che non cerca
vendetta, ma verità. La sua è una testimonianza lucida e commossa, tre anni dopo l’omicidio avvenuto in Lussemburgo nel 2022.
«Da quella Pasqua, quando ho perso la mia amata Sonia, come ho fatto a sopravvivere? Solo con la forza interiore che mi viene dal Signore. E da mia figlia. Lei mi parla ancora. Mi dà la forza per andare avanti. E io voglio giustizia. Ma non una giustizia qualsiasi: la giusta giustizia».
Antonietta racconta questi tre lunghi anni d’attesa con una determinazione che non si piega: «Trent’anni, dicono? Io non ci sto. Non accetto. Ora attendiamo l’ufficialità della sentenza. Poi vedremo con l’avvocato cosa fare. Come reagire? Io andrò avanti. Anche in agosto europeo, se necessario».
La vicenda, che ha scosso la comunità italiana in Lussemburgo, è diventata simbolo del dolore delle madri e dell’urgenza di una giustizia autentica. «In questi tre anni ho pensato tanto. Durante l’attesa del processo speravo solo nell’ergastolo. Avevano tutte le prove. Tutti gli elementi. Eppure ci è voluto troppo tempo. Hanno iniziato il 13 maggio. Ho pensato tanto alla Madonna. Speravo in lei. Ma i giudici hanno considerato che gli imputati sono giovani. A me non importa. Anche mia figlia era giovane. Ma lei non tornerà più».
Determinata, Antonietta afferma: «Loro non devono uscire più. Devono restare in carcere. Io non mi fermo. Quando sono andata in Lussemburgo per il processo, da sola, senza mio marito che era già morto, ho provato un dolore immenso. Ma lui mi ha sostenuto, in spirito».
In aula ha guardato in faccia gli aggressori: «Li ho visti. Ho sentito stringersi qualcosa dentro. Hanno chiesto perdono, più volte. Ma io non me la sento. Non adesso. Dopo aver visto il filmato delle telecamere… non riesco a perdonare. Quello che hanno fatto a mia figlia… non si può raccontare. E il perdono è un lavoro interiore. Non si può fingere».
Il video, mostrato in udienza, è stato uno choc: «Hanno fatto uscire il pubblico e i giornalisti, ma la stampa c’era. Mi hanno detto che potevo uscire anche io, che non dovevo guardare. Ma ho detto: “No. Resto qui. Questo è il mio posto”. Volevo vedere cosa avevano fatto a mia figlia, anche se mi faceva male. L’interprete lussemburghese era accanto a me e mi ha detto: “Signora, anche se deve stringere forte, può tenermi la mano”».
Il racconto è crudo: «Loro volevano i soldi. Pensavano ci fossero 50mila euro nel caveau. Invece c’erano solo 3mila euro, l’incasso della giornata. Perché non le hanno semplicemente chiuse in una stanza? C’erano tanti posti. Ma hanno detto che non volevano lasciare testimoni. Dopo aver visto quel filmato, non ho più avuto la forza di guardare altro. L’hanno aggredita subito, senza darle il tempo di parlare. L’hanno soffocata. Uno con un cuscino, l’altro con le mani. Le hanno rotto telefono e computer, per impedirle di chiedere aiuto».
C’è poi il dolore per il tradimento: «Quel ragazzo lei l’aveva aiutato. Dicevano che aveva fame, che doveva prendere dei vestiti. Lei lo ha fatto entrare. Era un collega, e Sonia era l’unica a fare la chiusura serale. Lui ha aperto anche al complice, poi si è nascosto. Quando Sonia è uscita dall’ufficio, l’hanno aggredita. Senza pietà».
Sull’assoluzione del terzo imputato, Antonietta è durissima: «Il procuratore ha chiesto l’assoluzione. Non sono d’accordo. Se lui avesse fatto il suo lavoro, non li avrebbe fatti entrare. Invece ha permesso tutto. E Sonia è morta».
Poi, una riflessione amara: «Il 14 maggio è il giorno del matrimonio della Madonna. Ed è anche il giorno in cui è morta mia figlia. Ma loro usciranno. Si rifaranno una vita. E Sonia? Finisce tutto lì? Uno di loro viveva persino sotto falso nome francese. Che fiducia si può avere?».
Il cuore della madre non cerca vendetta. Cerca verità. «Non mi basta quello che è stato detto in tribunale. Voglio sapere perché. Ma temo che non lo saprò mai. E non lo faccio solo per Sonia. Lo faccio per tutte le ragazze uccise. Sonia è un simbolo. Tutte loro sono sogni spezzati. Io voglio lottare per loro».
Alla domanda su cosa direbbe agli assassini, Antonietta risponde con fede: «Voglio una risposta vera. Non mi piace la violenza, non l’accetterò mai. Si deve vivere nel nome di Cristo. E la violenza non appartiene a Cristo. Né a me. Ma con pazienza, io aspetterò».
Non si definisce una “mamma coraggio”: «Non so se sono coraggiosa. So solo che parlo per mia figlia. Per onorare la sua memoria. Alle altre mamme che hanno perso un figlio dico: non perdete la speranza in Cristo. Anche se il dolore è come un vestito cucito sulla pelle, non bisogna lasciarsi andare. Altrimenti il male vince. E non deve vincere».
Infine, un ricordo struggente: «Quella settimana in cui è morta Sonia, c’erano altri casi simili. Dicevo: “Poveri genitori”. Ora quei genitori siamo noi. Poco prima di morire, Sonia mi aveva detto: “Mamma, voglio aiutare una famiglia in difficoltà”. Aveva questo desiderio forte. Le risposi: “Fai ciò che senti. Sei più brava tu di me. Vivi la carità”. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima settimana della sua vita».
E conclude, con gratitudine: «Grazie mille. Per avermi ascoltata. Per aver dato voce a Sonia».























