Un legame profondo con la propria terra, un’infanzia segnata dai viaggi in Italia e la forza dei valori trasmessi dalla famiglia: da Bojano al Colorado, la storia di Antonella Navarra Hempelmann (per tutti Enea) è il ritratto di come le radici possano diventare slancio per il futuro. Cresciuta tra le tradizioni molisane, i profumi della cucina di famiglia e la coesione della comunità, ha portato con sé – negli Stati Uniti – lo spirito di resilienza e il senso di giustizia appreso dai genitori emigrati. Oggi, dopo quasi trent’anni di servizio, guida il Dipartimento di Polizia di Broomfield. Per lei, però, Bojano non è solo ricordo: è la casa che continua a custodire il cuore.
Partiamo subito dalle sue origini. Che ricordi o racconti della sua infanzia in Molise ha conservato in famiglia?
«Mia madre, Giuseppina Vitale Navarra, e mio padre, Mario Navarra, sono entrambi di Bojano. Anch’io sono nata a Bojano, così come mio fratello maggiore, Alberto Navarra. Mio fratello più giovane, Tony Navarra, è invece nato negli Stati Uniti, dove ci siamo trasferiti nel 1979.
Quando ero bambina, venivamo in Italia quasi ogni due anni. Ancora oggi, i miei genitori hanno casa a Bojano. Uno dei miei ricordi più belli di quei viaggi era trascorrere del tempo nel negozio di alimentari di mia nonna. Passavamo ore sedute con lei, mentre i clienti entravano e uscivano.
Poi le passeggiate in piazza, dopo cena con nonna o con le zie. Andavamo a prendere un gelato, il migliore del mondo! Trascorrere del tempo con la mia famiglia era la cosa che amavo di più.
Quando dovevamo tornare in America ero triste per settimane perché sentivo la mancanza dell’Italia. Non vedevo l’ora che arrivasse l’anno successivo per poterci tornare».
Quando è stata l’ultima volta a Bojano? Che impressioni ha avuto?
«Amo profondamente Bojano, sono tornata poco tempo fa, per le vacanze estive di quest’anno. Il paese è sicuramente cambiato, ma lo amo ancora. Quest’anno, quando sono venuta in Italia, ho viaggiato dal nord al sud e ho portato con me le mie figlie. Ho fatto visita alla mia famiglia a Bojano e ho portato le mie figlie a vedere Civita, uno dei miei posti preferiti. Questo viaggio mi ha fatto ricordare perché amo così tanto Bojano, che resta il mio posto preferito in tutta Italia»
Crescendo negli Stati Uniti, quanto ha influito l’eredità culturale italiana, e in particolare molisana, sulla sua formazione?
«La tradizione italiana è sempre rimasta con me e i miei fratelli. Ho tre figlie, Micayla, Gabriella e Sofia, e sebbene mio marito Brian sia americano, cerchiamo di mantenere forti le tradizioni italiane nella nostra famiglia. Mia madre mi ha insegnato a cucinare, tutti i miei amici parlano del nostro cibo. Mio padre ancora fa il vino in casa, ogni anno, mentre mia madre e le mie cognate preparano la marmellata. Per non parlare dell’orto di verdure: melanzane, peperoni, pomodori, cipolle, c’è di tutto. Ancora oggi, quando gli americani mi chiedono qual è il mio ristorante italiano preferito, rispondo: “La casa di mia madre!”.
Quando ero bambina, i miei genitori si sono iscritti a tutti i club italiani in Colorado. Hanno persino formato un gruppo di ballo folcloristico molisano che si esibiva a vari festival ed eventi. Hanno partecipato alla parata del Columbus Day per molti anni. Hanno mantenuto viva la tradizione coinvolgendo altri emigranti italiani.
Sono cresciuta in questo contesto, per essere una donna forte che comprende davvero l’importanza del duro lavoro, del rispetto e della famiglia».
Qual è stato il ruolo dei valori trasmessi da sua madre nella sua crescita e nelle sue scelte di vita?
«Sia mia madre che mio padre ci hanno trasmesso valori che ancora oggi considero fondamentali. Hanno lavorato duramente durante la loro vita in America ed è per questo che ho sempre avuto un’etica molto forte. Mi hanno sempre insegnato ad andare oltre e a non accontentarmi. Ricordo che quando ottenni la mia prima promozione per la posizione di sergente, mi dissero: “Non fermarti qui, continua!”.Mi hanno spinto a continuare a lavorare e questo mi ha motivata a ottenere costantemente promozioni, scalando tutti i gradi del dipartimento di polizia, più e più volte».
Come è nato il suo interesse per il servizio pubblico e come è iniziata la sua carriera nel Dipartimento di Polizia?
«Ora sono un ufficiale di polizia a Broomfield, in Colorado. Volevo fare la poliziotta sin da bambina. Ricordo di averlo detto ai miei genitori, ma erano preoccupati, sapendo che il mondo non è sempre un luogo sicuro e che si tratta di un lavoro molto rischioso.
Nel 1993, sono stata assunta come centralinista di emergenza per il Dipartimento di Polizia di Westminster, ed è lì che ho deciso che sarei diventata un ufficiale di Polizia. Volevo essere io quella che aiutava le persone. Volevo essere presente per assicurarmi che venisse fatta giustizia e sapevo di voler diventare detective per aiutare le vittime a ottenerla.
Così, nel 1995, ho frequentato l’Accademia dove ho ottenuto la certificazione statale per diventare un ufficiale. Sono stata assunta nel 1996. In seguito, mi sono trasferita al Dipartimento di Polizia di Broomfield, dove lavoro da allora. Ho iniziato come sergente, poi comandante e in seguito vice capo. A gennaio 2022, ho avuto l’onore di essere scelta come Capo della Polizia, il periodo più gratificante della mia carriera. È un ruolo impegnativo, ma sono appassionata all’idea di fare una differenza positiva per i miei ufficiali e per la mia comunità».
Quali sono state le tappe più significative del suo percorso professionale fino al raggiungimento della carica attuale?
«Uno dei ruoli più gratificanti per me è stato quello di detective, dove ho potuto contribuire direttamente alla risoluzione dei casi e aiutare le vittime a ottenere giustizia.
Ogni posizione, comunque, mi ha dato una prospettiva più ampia sulla sicurezza pubblica e sull’importanza cruciale di dar supporto sia alla nostra comunità che al nostro personale.
L’obiettivo che voglio raggiungere è garantire sicurezza alla comunità e fornire al contempo ai miei agenti le risorse, l’incoraggiamento e l’assistenza di cui hanno bisogno per svolgere i loro doveri».
Una donna forte e di origini italiane in un contesto come quello della Polizia americana: ha incontrato difficoltà o pregiudizi particolari?
«Come ogni professione, anche le forze dell’ordine hanno le loro sfide, indipendentemente dal genere. E con la supervisione di quasi 300 dipendenti e la gestione di una prigione, è difficile. Anche se questo è un campo tradizionalmente dominato dagli uomini, ho avuto la fortuna di sentirmi sostenuta durante tutta la mia carriera. Credo che questo supporto derivi dal rispetto che mi sono guadagnata con il duro lavoro, sia dalla comunità che servo sia dai dipendenti del Dipartimento di Polizia. Ritengo che il sostegno della mia famiglia, della mia organizzazione e della comunità abbiano reso questa posizione davvero significativa».
Ha mai affrontato momenti in cui le sue radici l’hanno aiutata ad avere una prospettiva diversa o un approccio particolare nel suo ruolo?
«Una delle più grandi influenze della mia eredità italiana è il valore che si dà alla famiglia. Porto con me questa prospettiva ogni giorno come Capo della Polizia. Spesso ricordo alla mia squadra che, per molti aspetti, siamo noi stessi una famiglia. Passiamo lunghe ore insieme, spesso più di quanto non facciamo con i nostri cari, e a causa delle sfide uniche di questa professione, è essenziale sostenerci e prenderci cura gli uni degli altri.
Il lavoro nelle forze dell’ordine può significare lavorare per giorni e notti intere, essere chiamati a tutte le ore e affrontare le persone nei loro momenti più difficili. Per questo motivo, ho reso il benessere dei nostri dipendenti una priorità assoluta, in particolare per quanto riguarda la salute mentale. Credo che gli stessi principi con cui sono stata cresciuta — prendersi cura degli altri, mostrare compassione e, sì, persino dimostrare amore e rispetto sul posto di lavoro — siano ciò che ci permette di rimanere forti come individui e come Dipartimento di Polizia».
Negli Stati Uniti si parla molto di comunità e senso civico; a suo avviso, esistono analogie con lo spirito di coesione che caratterizza i piccoli centri molisani come Bojano?
«Negli Stati Uniti, c’è una forte enfasi sul coinvolgimento della comunità e vedo molte somiglianze con il senso di coesione che esiste in città più piccole come Bojano. In entrambi i contesti, le persone si preoccupano profondamente l’una dell’altra e del benessere della propria comunità.
Ciò che può differire è la dimensione dei due luoghi: in una piccola città tutti si conoscono personalmente, mentre in una grande città come Broomfield dobbiamo lavorare per costruire lo stesso senso di cura verso i vicini. I valori condivisi mi ricordano che, sia in una piccola città che in una grande, la forza di ogni comunità deriva dalle persone che si prendono cura l’una dell’altra».
C’è un consiglio che darebbe ai giovani molisani, ai giovani di Bojano che sognano di affermarsi nella propria carriera professionale?
«Il mio consiglio è di non perdere mai di vista le proprie radici, pur rimanendo aperti a nuove opportunità. Il successo richiede duro lavoro, perseveranza e, a volte, sacrifici, ma è anche estremamente gratificante.
Portate con voi i valori con cui siete cresciuti, specialmente quelli legati alla famiglia — perché vi guideranno ovunque la vita vi porti. Allo stesso tempo, siate curiosi, continuate a imparare e non abbiate paura di correre dei rischi. Ogni sfida che affronterete può diventare un’occasione per crescere.
Soprattutto, credete in voi stessi e nella prospettiva unica che portate; le vostre origini non sono un limite, ma una forza che può rendervi unici. Non dimenticate mai da dove venite e portate questi valori alla vostra famiglia quando diventerete adulti».
Qual è il suo legame emotivo con Bojano oggi e cosa prova sapendo che la sua storia sarà letta dai cittadini della sua città d’origine e della sua famiglia?
«Avendo vissuto sia in America che in Italia, posso dire che il mio cuore è a Bojano. Ho viaggiato in tutta Italia molte volte e Bojano rimane casa per me».
GR

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