«Franco Miranda: un gentiluomo innamorato della sua terra!».
È il commento di Franco Valente nell’apprendere la notizia dolorosissima della scomparsa di questo amico, amato e stimato, avvenuta una settimana fa a Casalciprano dove ha chiesto disperatamente di tornare nella consapevolezza che chiudendo gli occhi nell’intimità della propria casa, avrebbe avuto attorno a se l’affetto della sua gente.
E sì, Franco Miranda amava la sua terra! Amava questo strano Molise che assiste con rassegnato dolore al suo lento inesorabile declino che lo sta conducendo alla cancellazione sociale determinata dall’abbandono che spopola luoghi, svuota case, inaridisce terreni un tempo rigogliosi di frutti. Lui il pericolo del vuoto antropico lo aveva sentito arrivare! Lo percepiva dai discorsi dei vecchi che scuotendo la testa amaramente mormoravano: ze furnute ru tiempe de na vota le gjuvene ze ne vanne lassene la terra che pretende fatja e sudore. In cuor suo si ribellava a questo destino. Anche lui era giovane, coetaneo di quelli assieme ai quali aveva studiato e che a giusta ragione pretendevano di potersi esprimere attraverso una professione piuttosto che un mestiere di quelli che sporcano e rendono dure e callose le mani. Però lui era curioso, amava conoscere, sapere il perché delle cose. Un antropologo per inclinazione, ricercatore per passione con l’istinto di saper cogliere il valore della memoria che se tesaurizzata e trasmessa alle generazioni più prossime svela un patrimonio di conoscenze utili non solo per comprendere le proprie origini quanto per definire la propria identità – quel valore che consideriamo astratto – che, pero, non è innato nell’uomo, ma si costruisce giorno dopo giorno relazionandosi con il mondo circostante e la comunità di appartenenza.
L’identità, il senso di appartenenza è un elemento straordinario, spunto, se tenuto in giusto conto, per porre un argine a quella diaspora che dal secolo precedente a tutto il ‘900 come in un processo di spermatofite continua a disperdere i suoi semi fuori dal luogo natio.
Gli anni dell’infanzia lo hanno visto crescere in un gineceo carico di suggestioni leggendarie, di tradizioni espresse attraverso un vernacolo ricco di calore e iridescenze trasmesse da una gestualità riferita ad un esoterismo popolare. Elementi preziosi a formare quel lievito indispensabile per fermentare la sua curiosità che negli anni ha fatto da sprone ad uno studio incessante, accanito e, mai, a suo giudizio, definitivamente esaustivo pur se fornitore di utili straordinarie conoscenze da non adoperare come vanto o abbellimento narcisista ma, formative della consapevolezza di possedere quell’autenticità che l’omologazione rischia di cancellare. Il suo è stato un impegno di studio condotto in forma ostinata, perseverante per saziare una incontenibile sete di conoscenza durata fino ai suoi ultimi giorni.
Aveva compreso che la memoria non poteva andare perduta ma catturata, stanata dalla mente dei vecchi inclini ad obliarla, a cancellarne il ricordo perché troppo carico di dolori e pene patite. Al contrario di taluni ricercatori che hanno gelosamente serbato come reliquie le testimonianze raccolte, percorrendo, indagando quel mondo che andava polverizzandosi, Franco Miranda ha messo a disposizione di tutti, attraverso mostre, pubblicazioni e conferenze un patrimonio che ha sempre voluto fosse di uso collettivo. Riposte nelle pieghe della propria natura annoverava i paradigmi di un mondo rurale che seguendo l’esempio della propria stirpe affidava la speranza di sopravvivenza alla forza delle braccia, alla fatja – seppure alleggerita dalla cadenza e dal ritmo dei canti rituali – che rincorrendosi da campagna in campagna – sdoganavano il lavoro dalla maledizione di un destino che pretendeva che fossero dolore e sudore i mezzi per irrigare la terra, rendendola fertile e generosa di frutti a garanzia della sopravvivenza.
Ha saputo trasformare i limiti dell’isolamento e dell’arretratezza in peculiarità attrattiva. Ha voluto che Casalciprano non fosse nota esclusivamente per la vendita di prosciutti e caciocavalli – che pure si producono – ma l’ha resa meta intrigante, da conoscere, apprezzare attraverso le caratteristiche antropologiche che esprime. Sorprendente, vivace per la capacità di accogliere il visitatore grazie al ripristino di luoghi e spazi che raccontano un passato non del tutto cancellato. Lo ha fatto restituendo vita e calore a palazzi condannati all’oblio dell’abbandono, resi accoglienti attraverso un cerimoniale di ospitalità gradevole, genuinamente elegante, quale inaspettato contraltare rispetto ad abitudini altrove smarrite.
Con tutte le sue forze e tanta caparbietà, nella linearità di un’ottica amministrativa di servire la collettività (ha guidato per 25 anni il suo Comune) ha voluto che le cose che andava man mano realizzando – musei a cielo aperto, murales, una suggestiva soffitta dei ricordi realizzata avvalendosi dell’ausilio di abili artigiani ed esperti scenografi – creassero la suggestione di una narrazione visiva. Un racconto che ammalia adulti e bambini capace di rendere plastiche scene che infatti, come per magia, vedono i personaggi (ciascuno con le fattezze delle persone del luogo) prendere vita, tornare ad interpretare il proprio ruolo richiamando alla mente quel museo di ombre che, ciascuno di noi, racchiude nel proprio inconscio e che, a volte, torna con i suoi fantasmi a popolare i sogni.
Il suo è stato un dispiego di energie profuso non per soddisfare un’ambizione nostalgica, ma condotto con spirito imprenditoriale, affinché Casalciprano si appropriasse di un diritto di identità collettiva ma, utile, nell’offrire opportunità di lavoro ai giovani muniti di competenze da impiegare in loco come altrove. Ha dato un ruolo alle donne ancora capaci di tramandarsi i segreti e la manualità di una cucina fatta di profumi e sapori resa tale attraverso l’utilizzo dei prodotti locali, per arricchire con sapienza e parsimonia la tavola di ogni giorno.
La chiesa di San Salvatore inarrivabile com’è nel suo ergersi in alto, ambiziosa nel ruolo di sentinella a guardia di una vallata verde dal cui sagrato a tratti si scorge l’argenteo fluire del Biferno e quasi pare di toccare il Matese mentre in lontananza, all’orizzonte la Maiella ricorda storie di antica fratellanza oramai cancellata, era affollata di gente domenica scorsa nel giorno del funerale. Gente del Paese, la sua gente, ed altra ancora venuta da fuori, dai paesi circostanti, dal Capoluogo, raccolti al cospetto di quella bara poggiata a terra coperta di delicati fiori bianchi e gialli. Non si sono visti volti noti di personaggi esponenti di quella classe politica per la quale Franco Miranda si è speso, quella Democrazia Cristiana che per decenni ha feudalizzato il Molise incapace però di progettarne il futuro.
Il parroco don Antonio Di Franco nella sua predica non ha mancato di sottolineare il “carattere” a suo dire non facile di Franco Miranda. Certo che bisogna avere un bel carattere, una tempra non comune per fare tutte le cose che ha realizzato quest’uomo e, non per trarne un proprio vantaggio. Ma si sa, di solito nel linguaggio comune il termine “carattere” ha un’accezione non sempre positiva e, per i preti è un segno indelebile impresso nell’anima dalla virtù conferita dai sacramenti teologali e, in quanto dono supremo, non sono ammesse fughe disobbedienti ma solo cieca osservanza.
Però alla fine tra i due c’è stato l’incontro sublimato dalla sacralità del momento che andava profumandosi dell’olio crismale. Il parroco nell’affanno dato dall’ansia di assolvere la missione di mondare le anime, Franco sereno di accogliere l’abbraccio del suo Creatore.

Vittoria Todisco

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*