Dopo 45 anni, la storia di uno dei delitti più oscuri della Repubblica – l’assassinio di Piersanti Mattarella – si intreccia di nuovo con la cronaca. Stavolta, a finire al centro delle indagini è un nome noto anche in Molise, specialmente a Isernia: Filippo Piritore, 75 anni, ex prefetto della provincia pentra dal 2011 al 2015, nonché già questore a Caltanissetta, L’Aquila e Genova.
Secondo la Procura di Palermo – procuratore antimafia Maurizio De Lucia e i sostituti Antonio Carchietti e Francesca Dessì – Piritore avrebbe avuto un ruolo decisivo in un presunto depistaggio compiuto all’indomani del delitto Mattarella. I magistrati gli contestano di aver «affermato il falso e taciuto quanto a sua conoscenza» sulla scomparsa di un reperto definito «importantissimo»: un guanto di pelle marrone, ritenuto appartenere a uno dei sicari che, il 6 gennaio 1980, uccisero a colpi di pistola il presidente della Regione siciliana, fratello dell’attuale Capo dello Stato.
Quel guanto, fotografato e repertato dagli uomini della Scientifica all’interno della Fiat 127 rubata e abbandonata dagli assassini in via Libertà, a Palermo, sarebbe poi sparito nel nulla. Per i pm, proprio grazie a quella sparizione sarebbe stato possibile «inquinare gravemente l’indagine» e rallentare – fino quasi a bloccarla – la ricerca dei responsabili.
La Direzione investigativa antimafia ha notificato a Piritore la misura degli arresti domiciliari. Gli inquirenti sostengono che l’allora giovane funzionario della Squadra Mobile – in servizio nel reparto guidato da Bruno Contrada – abbia preso personalmente in consegna il guanto, per poi dichiararne la consegna a un collega della Scientifica, Giuseppe Di Natale, destinato a consegnarlo al magistrato di turno, Pietro Grasso.
Una catena di passaggi che, però, non trova riscontro in alcun atto formale. Né Di Natale né Grasso avrebbero mai ricevuto o anche solo visto il reperto. Entrambi, sentiti dai magistrati, hanno negato ogni coinvolgimento: il primo ha ricordato di non aver mai avuto contatti diretti con Piritore, mentre il secondo ha spiegato di non aver mai richiesto un oggetto di quel genere, non essendovi motivo investigativo per farlo.
La versione di Piritore – secondo cui il guanto sarebbe poi stato riconsegnato alla Scientifica su disposizione di Grasso, tramite un agente chiamato «Lauricella», rimasto però non identificato – non convince la Procura, che la ritiene «certamente e incontrovertibilmente falsa». Per i magistrati, quella presunta consegna avrebbe rappresentato un espediente per far sparire definitivamente la prova, così da non destare sospetti.
Il “mistero del guanto” è riemerso nel 2017, quando la Procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta con l’obiettivo di sottoporre il reperto a nuove analisi del Dna. Ma del guanto non c’era più traccia, né nei laboratori della Scientifica né tra i corpi di reato del Tribunale. Da allora, gli investigatori della Dia hanno ricostruito la catena di custodia e acquisito documenti e fotografie.
E in riferimento a questa vicenda i pm scrivono che le indagini sull’omicidio Mattarella «furono gravemente inquinate e compromesse dai appartenenti alle istituzioni che, all’evidente fine di impedire l’identificazione degli autori del delitto, sottrassero dal compendio probatorio un importantissimo reperto, facendone disperdere definitivamente le tracce».
Nella nuova inchiesta aperta a Palermo risultano indagati anche due mafiosi – Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese, all’epoca rispettivamente di 28 e 22 anni – sospettati di essere stati gli esecutori materiali del delitto.
In Molise, dove Piritore aveva ricoperto la carica di prefetto di Isernia dal 20 dicembre 2011 e fino al 31 dicembre del 2015, la notizia dell’arresto ha destato sorpresa e sgomento. Con l’inchiesta palermitana che, a distanza di decenni, prova ora a restituire voce a quella verità che – forse – è rimasta sepolta insieme al guanto scomparso.
























