Un venerdì pomeriggio che resterà impresso nei cuori. All’Auditorium di via Elba, non è andata in scena una semplice proiezione cinematografica, ma un momento collettivo di rara intensità emotiva. Il docufilm “Io ci provo”, firmato dal regista Francesco Paolucci e dallo psicologo e psicoterapeuta Rosario Sabelli, ha spalancato una finestra su un mondo spesso frainteso o, peggio, ignorato: quello delle persone nello spettro autistico. E lo ha fatto con la grazia potente delle storie autentiche, delle emozioni vere, di sguardi che non hanno bisogno di effetti speciali per toccare l’anima. Sul grande schermo, le vite di cinque ragazzi – Antonello, Denis, Adis e i due Francesco – si sono intrecciate in un racconto corale fatto di desideri semplici e sfide quotidiane: imparare a cucinare, prendere la patente, riparare un computer, cantare, navigare. Ma soprattutto, esserci. Farsi sentire. Rivendicare con fierezza, dolcezza e coraggio un posto nel mondo. “Io ci provo”, dicono. E lo dicono a tutti noi. Con voce tremante ma ferma, con occhi lucidi ma pieni di luce. In sala, il silenzio era carico di rispetto, rotto solo dagli applausi, lunghi e intensi come abbracci. Qualcuno ha pianto, molti hanno riflettuto, tutti si sono sentiti toccati nel profondo. Al termine della proiezione, l’incontro con i protagonisti ha aggiunto un ulteriore livello di commozione. Uno di loro, con semplicità disarmante, ha detto: «Io non sono solo autismo. Io sono anche sogni», Una frase che ha sciolto ogni distanza tra “noi” e “loro”, ricordando quanto l’umanità sia fatta di sfumature e non di etichette. L’evento è stato patrocinato dal Comune di Termoli e sostenuto con forza dalla Regione Molise, che negli ultimi anni ha mostrato una crescente attenzione verso i temi dell’autismo. La consigliera regionale delegata alle Politiche sociali, Stefania Passarelli, ha illustrato le misure messe in campo: «Abbiamo stanziato 4,2 milioni di euro su tre annualità, una scelta doverosa per sostenere le famiglie. Non perché le altre disabilità siano meno importanti, ma perché l’autismo richiede un impegno particolare». E ha aggiunto con emozione: «Io prima di essere un politico sono una mamma. E da mamma ho pensato a chi ha bisogno di tutto il supporto possibile». Progetti per i caregiver, nuove misure per gli anziani, riorganizzazione degli ambiti territoriali senza lasciare indietro nessuno: è questa la direzione tracciata. «Abbiamo un piano sociale da 54 milioni di euro – ha spiegato Passarelli – e ci assicureremo che nessuno resti escluso», un segnale forte, in un territorio dove la fragilità spesso convive con l’isolamento. Ma al centro del pomeriggio non ci sono state le istituzioni, bensì le persone. Rosario Sabelli, che lavora nel centro per l’autismo La casa di Michele all’Aquila, ha raccontato la genesi del progetto: «È nato per gioco, condividendo con Francesco (Paolucci, ndr) la bellezza del mio lavoro. Ma è diventato qualcosa di più: un’occasione per raccontare l’autismo nella quotidianità, per accorciare le distanze, per stimolare la curiosità e la comprensione». «Io ci provo – ha spiegato – non è solo un film. È un’esperienza. Dopo la proiezione, i protagonisti interagiscono col pubblico, rispondono alle domande, si raccontano. È così che la conoscenza diventa coinvolgimento, empatia, consapevolezza». Carla Pasquarelli, figura di riferimento per l’associazionismo termolese sui temi della disabilità, ha sottolineato il senso profondo dell’iniziativa: «Non è solo sensibilizzazione, è conoscenza. Vogliamo che le persone capiscano l’autismo ascoltando direttamente chi lo vive. I progressi ci sono, certo, ma non bastano. Ora chiediamo inclusione reale, soprattutto lavorativa. I nostri ragazzi, da adulti, hanno diritto a un futuro».
Un messaggio forte, rilanciato anche dall’assessora Mariela Vaino, visibilmente commossa in sala: «Questo film arriva in un momento particolare per me. Mi ha toccato nel profondo, soprattutto una frase: Le persone normali sono quelle che credono di essere migliori. E allora viene spontanea una domanda: cos’è davvero la normalità? Forse la vera normalità è quella dei protagonisti di questo film, che provano, si mettono in gioco, si raccontano. Io ci provo è un titolo che dovrebbe appartenere a tutti noi». E forse è proprio questo il punto centrale. In un mondo che spesso costruisce barriere invisibili e impone modelli irraggiungibili, Io ci provo è una dichiarazione di resistenza e di fiducia. È la voce di chi non chiede pietà, ma ascolto. Di chi non si definisce attraverso una diagnosi, ma attraverso i propri sogni. Di chi ci ricorda che la diversità non è un ostacolo, ma una ricchezza. In quel pomeriggio, nell’Auditorium di via Elba, si è respirata una verità rara: l’inclusione non è uno slogan, ma un gesto concreto, uno sguardo che accoglie, un applauso che abbraccia. E un film – solo all’apparenza piccolo – è riuscito a diventare un grande ponte tra mondi apparentemente lontani. Perché, in fondo, provare è il primo passo per cambiare. E “Io ci provo” lo insegna con una forza silenziosa e irresistibile.