Tra i più stretti e fidati collaboratori del presidente Francesco Roberti, il consigliere regionale Roberto Di Pardo ha recentemente restituito la delega alla Sanità, in un gesto politico forte e simbolico. La sua decisione nasce dalla constatazione dell’impossibilità – a causa del perdurante commissariamento e dei vincoli imposti dalla normativa nazionale, in particolare dal decreto Balduzzi – di incidere realmente sulla programmazione e sulla riorganizzazione del sistema sanitario molisano.
In questa lunga intervista, Di Pardo analizza nel dettaglio le cause strutturali della crisi della sanità regionale: il sottofinanziamento cronico, l’asimmetria tra costi e risorse, le difficoltà legate alla morfologia del territorio, la carenza di personale e la necessità di superare modelli gestionali obsoleti. Tra gli argomenti trattati anche il pacchetto di risorse straordinarie ottenuto grazie all’interlocuzione politica con il governo Meloni, il tema della mobilità passiva, le proposte di integrazione tra pubblico e privato, il rilancio dei reparti strategici attraverso assunzioni mirate, e la richiesta di una revisione strutturale dei criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale.
Un’analisi puntuale e realista, che prova a restituire dignità al dibattito sulla sanità molisana, non con slogan, ma con dati, azioni concrete e proposte di riforma.
Perché il sistema sanitario molisano vive una condizione di “emergenza permanente” e qual è l’impatto del decreto Balduzzi?
«Il Fondo sanitario nazionale riconosce al Molise circa 650 milioni di euro l’anno, ma per garantire i Lea ne servirebbero almeno 900. Il decreto Balduzzi impone che si possa istituire un Dea di II livello ogni 600mila abitanti; applicarlo alla lettera in una regione montuosa e dispersa significherebbe chiudere strutture indispensabili ed esporre intere aree interne a un “diritto alla morte garantita”. Per assicurare assistenza capillare occorrono tre ospedali e numerosi ambulatori, con inevitabile triplicazione dei costi fissi che, pur necessari (portinerie, Pronto soccorso, servizi generali), non migliorano direttamente la qualità clinica».
Ridurre i costi è davvero la strada per rientrare dal deficit?
«I tagli lineari non generano risparmi reali: spingono i cittadini a curarsi fuori regione e fanno lievitare la mobilità sanitaria passiva, che il Molise deve comunque rimborsare. Serve invece un vero “piano industriale”, fondato su investimenti in professionisti e tecnologie. Più medici e infermieri di alta qualità significano meno fughe di pazienti e maggiori entrate da mobilità attiva».
Quali interventi operativi sono già stati messi in campo per invertire la tendenza?
«La Regione ha puntato sull’eccellenza professionale: due ortopedici di altissimo profilo (Campobasso e Termoli) hanno raddoppiato gli interventi, portandoli a quasi 700 nel 2024; il cardiologo Magri ha rilanciato l’emodinamica; il ginecologo Biondelli ha riportato in Molise i parti che migravano in Abruzzo e sta attraendo utenza abruzzese; nuove equipe in urologia (Campobasso), chirurgia tiroidea (Isernia), riattivazione della camera iperbarica di Larino, 300 angioplastiche annue a Isernia, nuovo primario di chirurgia (Vigliardi).
Queste scelte hanno abbattuto la mobilità passiva e creato mobilità attiva».
Che ruolo ha avuto (o non ha avuto) la rappresentanza politica nel reperire risorse aggiuntive?
«Nel 2014 la Regione perse l’occasione di chiedere fondi alla Conferenza Stato-Regioni; oggi il presidente Roberti, in sinergia con i parlamentari molisani, ha recuperato credibilità nazionale. La lezione è che il Molise ha bisogno di un presidio politico costante: senza interlocuzione a Roma, i fabbisogni locali restano ignorati».
Quante risorse straordinarie sono state ottenute e con quale impatto sul disavanzo?
«40 milioni a fondo perduto per chiudere il bilancio 2023; 20 milioni l’anno per dieci anni (fondo perduto); 20 milioni strutturali stabilizzati nel fondo sanitario; 45 milioni in due anni legati al piano di rientro. Il “pacchetto” vale circa 350 milioni. Il disavanzo è sceso da 600 a 432 milioni in due esercizi, senza nuovi mutui».
Come si riducono liste d’attesa e inappropriatezze?
«Occorre prescrivere esami e terapie solo quando indispensabili, così da diagnosticare prima le patologie e snellire le agende. Al Pronto soccorso, dove il carico di lavoro è divenuto usurante (aggressioni, contenziosi, turni estenuanti, etc…), si propone di passare da turni di 8 a 6 ore per trattenere gli specialisti. Per branche “non privatizzabili” (anestesia, emergenza) vanno riviste le retribuzioni interne. La riorganizzazione deve tener conto del nuovo contesto sociale, dei farmaci sempre più costosi e dell’invecchiamento della popolazione».
Che cosa significa “integrazione pubblico-privato” e quali rischi comporta?
«Il termine preferito è “integrazione”, non “accorpamento”. Esempi: il laboratorio analisi del pubblico può servire anche il privato; la cardiochirurgia privata può operare per il pubblico; due emodinamiche da 10 addetti ciascuna possono diventare una sola da 12-14 addetti, mantenendo la stessa capacità. L’obiettivo è ottimizzare i costi senza ridurre l’offerta; il privato lavora anche nei festivi, e lo stesso modello può essere esteso al pubblico. Una cabina di regia affidata al dottor Gianni Di Santo controlla in tempo reale produzione, liste e fabbisogno di personale, riducendo sprechi e clientele. Il personale dovrà accettare una mobilità interna mirata».
Le code non rischiano di allungarsi se si concentra l’utenza su un’unica struttura?
«Prima di ogni fusione si eseguono simulazioni di flusso per evitare colli di bottiglia: se 1 600 prelievi si spostano in un solo laboratorio, occorre garantire turnazioni più estese (anche serali o festive) e ampliare l’orario di utilizzo delle sale operatorie. L’ottimizzazione tecnologica e la gestione a “ciclo continuo” dovrebbero compensare l’aumento di utenti».
In che modo il commissariamento limita la capacità della Regione di programmare?
«Finché il Molise resta in piano di rientro, la programmazione è di fatto in mano a un commissario nominato da Roma. Il Consiglio regionale non decide né spesa né modelli organizzativi; può solo applicare il decreto Balduzzi. Restituire funzioni legislative e di controllo al Consiglio è l’unica via per adattare il sistema ai bisogni locali (ad esempio, oggi in Molise non esiste un singolo posto letto di geriatria nonostante la popolazione anziana).
Perché il consigliere Di Pardo ha rinunciato alla delega alla Sanità?
«Un gesto politico per sostenere la linea del presidente Roberti: “Uscire dal commissariamento” e far capire a governo e Mef che il Molise non può più essere vincolato a parametri inapplicabili. Restare commissariati significa dover rispettare la tabella dei posti letto del Balduzzi (che prevede zero geriatria) con risorse insufficienti: una contraddizione che colpisce la dignità degli anziani e di chi amministra».
I criteri nazionali (Balduzzi e quota capitaria) penalizzano deliberatamente le regioni piccole?
«Molti ritengono di sì: trasferimenti sotto-dimensionati costringono le Regioni a tagliare o ad alzare le tasse, e lo Stato scarica su di esse l’impopolarità fiscale. Parametri uniformi non considerano dispersione demografica, alta quota di esenzioni ticket, costi energetici e mobilità passiva obbligata. Con la popolazione molisana decentrata in decine di piccoli comuni, i costi si moltiplicano “per cento” rispetto a un’unica città-capoluogo. Da qui la richiesta bipartisan di aprire una “seconda revisione” del Balduzzi».
Quali tutele per il personale sanitario e quali scelte nazionali auspicate?
«Occorre proteggere gli operatori d’emergenza da aggressioni e contenziosi, ripensando i modelli di lavoro; incentivare le specialità “povere” o ad alta usura con retribuzioni dedicate; escludere sanità e istruzione da eventuali tagli di bilancio nazionali, specie in un contesto di tensioni internazionali che gonfiano i costi dell’energia e dei farmaci. Solo così si evita di innescare una spirale di carenza di personale e di prestazioni».
Il quadro disegnato da Roberto Di Pardo mostra che il problema non è (solo) “gestionale”, ma innanzitutto normativo e finanziario. Finché il Molise riceve 650 milioni per bisogni che ne richiedono 900, dovrà scegliere se tagliare (ma aumentare la mobilità passiva); indebitarsi (ma il dissesto resterà cronico); rivedere le regole nazionali (l’opzione che la politica regionale, oggi, considera prioritaria).
Nel frattempo, investire su professionisti di eccellenza, integrare pubblico e privato, razionalizzare flussi e prescrizioni, introdurre turnazioni flessibili e monitoraggio in tempo reale sono strumenti già in uso per contenere il danno e, dove possibile, generare valore aggiunto (mobilità attiva, riduzione del disavanzo). La sfida decisiva, però, resta istituzionale: ottenere da governo e Parlamento un meccanismo di riparto che tenga conto di morfologia, età media, dispersione e indici di deprivazione. Solo così il diritto costituzionale alla salute potrà essere garantito ai molisani senza alzare, ogni anno, l’asticella del sacrificio locale.
Salvatore Petrone