Otto anni di reclusione per Ciro Grillo e per tre suoi amici, accusati di violenza sessuale di gruppo. È questa la sentenza con cui il Tribunale di Tempio Pausania ha chiuso il primo grado di un processo che ha tenuto banco per sei anni. Sentenza non definitiva, certo: l’ordinamento italiano prevede due ulteriori gradi di giudizio e la presunzione di innocenza resta sacrosanta fino al passaggio in giudicato. Ciro Grillo, come ogni cittadino, avrà la possibilità di dimostrare la sua estraneità in appello e in Cassazione.
Intanto, però, una verità processuale si è consolidata e non può essere ignorata. Da un lato c’è il dolore profondo di Silvia che ha trovato nella decisione dei giudici un primo riconoscimento al suo coraggio: «Questa grande sofferenza ora ha un senso», ha detto attraverso la sua legale Giulia Bongiorno, che ha sottolineato come la giovane, dopo anni di silenzio e di paure, oggi possa sentirsi credibile agli occhi della giustizia.
Dall’altro lato c’è lo sconforto della famiglia Grillo, chiusa nel riserbo a Genova dopo il verdetto. Beppe, la moglie Parvin e i figli si sono stretti attorno a Ciro, che diventerà padre entro la fine dell’anno. Per loro la condanna è stata «una doccia gelata», dopo mesi vissuti con l’illusione che potesse arrivare un’assoluzione. Una convinzione di innocenza ribadita sin dall’inizio, anche con toni furibondi dall’ex comico in un video che fece discutere l’opinione pubblica: «Se dovete arrestare mio figlio, allora arrestate me». Da allora, silenzio. E adesso il dolore.
Eppure, non ci si può fermare all’aspetto umano della vicenda. C’è un piano politico e morale che in queste ore non può passare sotto silenzio. Perché se è vero che nessun figlio deve pagare le colpe dei padri e viceversa, è altrettanto vero che i padri – in questo caso Beppe Grillo e il Movimento da lui fondato – hanno costruito fortune politiche sul giustizialismo, sul “tutti colpevoli fino a prova contraria”, sull’uso dell’avviso di garanzia come strumento di delegittimazione. Quante volte gli avversari politici, in Molise come altrove, sono stati additati solo per un’indagine aperta, per un sospetto, per un titolo di giornale.
Andrea Greco, Antonio Federico, Roberto Gravina (a cui è concessa qualche attenuante), Angelo Primiani: da loro, che da anni non perdono occasione per puntare il dito, ci saremmo aspettati almeno una parola. Un commento, una presa di posizione, anche solo per ribadire la presunzione d’innocenza che oggi vale per Ciro Grillo. Invece, silenzio. Silenzio assordante.
Il processo andrà avanti, l’appello ridisegnerà scenari, le difese annunciano battaglia. Ma questa condanna di primo grado segna un passaggio di verità che nessuno può archiviare come se nulla fosse. Racconta la sofferenza di una giovane donna che ha trovato giustizia, almeno in parte. Racconta l’altra faccia di un Movimento che per anni ha preteso dimissioni, processi sommari e gogna pubblica per chiunque fosse finito sotto inchiesta.
Oggi quella stessa gogna si ritorce contro. E allora la domanda è semplice: chi ha sempre predicato la colpa altrui, saprà accettare di guardarsi allo specchio?
Federico, se ci sei, batti un colpo. LuCo

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