Tutti ricordiamo di certo quel pugno al davanzale che papa Giovanni Paolo II, sul finire del mese di marzo 2005, diede con forza, quando non riuscì a pronunciare una parola dalla finestra del palazzo apostolico. La malattia lo aveva bloccato. E si indignò fortemente!
È quello che oggi noi tutti sentiamo di vivere, mentre la pandemia non sembra dare speranza. E quel grido di dolore del Papa si fa il nostro grido, quotidiano. Mille le domande. Amare le riflessioni. Un senso di impotenza ci pervade. Diventa tristezza anche nel cuore dei credenti. Anche nell’animo dei nostri sacerdoti, perché anch’essi si sentono avvolti della stessa impotenza che prende i nostri ammalati all’ospedale, nel reparto di terapia intensiva. Ben assistiti, ma desiderosi di una parola di speranza, così difficile da poter dire e dare a loro.
Ebbene, proprio alla ricerca di una risposta al nostro grido, le Chiese del Molise hanno proposto alle loro comunità di rileggere e meditare il libro di Giobbe. Con questo slogan: “Accanto al dolore del mondo, meditando il libro di Giobbe!”. E lo facciamo nella festa del Verbum Domini, una iniziativa lungimirante, nata dal cuore di papa Francesco, in sintonia con la festa del Corpus Domini. Quest’anno la celebriamo proprio oggi, 24 gennaio, III domenica dell’anno liturgico.
Giobbe è un personaggio biblico affascinante.
Perché è un uomo vero. È proprio l’uomo! Vive le nostre contraddizioni e le nostre speranze, che traduce in un grido capace di raccogliere tutte le nostre lacrime. Seguiamo allora le tre tappe di questo cammino, di dolore e di speranza.
La prima è una sfida. Aperta, lanciata dal diavolo stesso, perché Giobbe sta bene, ha tanti campi, una bella famiglia, greggi e cammelli senza numero. Non gli manca nulla. Per di più, è lodato da Dio stesso, che lo fa ammirare da tutti. «Per forza ti loda – interviene Satana – ha tutto, gli conviene rispettarti, lo credo bene. Tu proteggi lui e la sua famiglia, in tutto!». E lancia a Dio una sfida, aperta, in un pubblico processo: «Prova a toccarlo, nelle sue proprietà e nel suo corpo. Mettilo alla prova, anche nella sua carne e nelle sue ossa. E vedrai se ti benedirà!». E Giobbe viene rivestito di una piaga che lo copre dalla testa ai piedi, con un odore ributtante, tanto che è costretto, scartato dalla stessa sua moglie, a trovarsi un angolo tra i rifiuti. Qui, va in crisi. Ed è la sua seconda fase. Non pronuncia nessuna imprecazione, ma grida, fortemente, perché si sente oppresso da un virus, che gli consuma le ossa. Lui non si sente colpevole e non ha fatto nulla di male. Perciò non capisce perché il Signore gli abbia mandato quella pandemia.
Accorrono tre sapienti, dal lontano oriente. Sono tre “esperti in teologia”. Persone che si mettono dalla parte di Dio e non di Giobbe. Non dell’Uomo. Anzi, accusano Giobbe: «Poiché Dio è sempre giusto e non colpisce chi è retto ma castiga solo chi è cattivo, tu, amico carissimo, se sei stato colpito da questa malattia, vuol dire che sei di certo colpevole». Ma Giobbe è invece innocente. I tre teologi ragionano secondo la tesi tradizionalista: chi sbaglia, paga. Chi soffre, è colpevole! Giobbe rifiuta questa tesi. Non ci crede. Non la accetta. Perché non crede ad un Dio così meschino. Intuisce che Dio ama. Che ha braccia ampie per tutti. Che non manda castighi; mette solo alla prova! Il dialogo si fa però serrato, perché anche nel cuore di Giobbe cresce il grido di disperazione contro Dio. Giobbe lo invoca, ma Lui non risponde. Lo sente come un avversario: «Se la gente muore per un disastro improvviso, della disgrazia dell’innocente Dio se la ride!», arriva a dire (9,23). Giobbe parla con le lacrime. Si fa forte del suo grido di dolore che sale al cielo: «I miei amici mi deridono, ma i miei occhi nel pianto sono rivolti a Dio» (16,20). E lentamente capisce che Dio non è assente, ma è presente nel silenzio: «So che il mio redentore è vivo ed un giorno egli mi riabiliterà… io stesso lo vedrò, i miei occhi lo contempleranno, non da straniero!»( 19,27).
Quasi a dirci che in questa pandemia, anche se lui resta silenzioso, ci offre però le armi per vincerla ed affrontarla con speranza. Perché Dio è nostro alleato, anche nell’oscurità. Ed asciugherà le lacrime da ogni volto. Non servono parole vane, come fanno i tre amici. Meglio è soffrire in silenzio, aspettando un segno dal cielo. Non emettere sentenze. Né dire parole scontate. Irritano, invece di consolare. Dio non si dimostra. Gesù non scende dalla croce, ma si fa presenza. Si fa accanto, non elabora sistemi di pensiero, ma ci abbraccia e ci cerca, come pecorella smarrita. Offre il perdono. Garantisce presenza.
E finalmente risponde, dopo i duri assalti di Giobbe. Ma non come lui si attendeva. Non direttamente. Lo invita, invece, a guardare il Creato, con tutta la sua forza nel turbine e la bellezza nelle costellazioni del cielo, con una serie incessante di interrogativi delicati: «Giobbe, considera le grandi opere di Dio. Hai tu forse con lui disteso il firmamento, solido come specchio di metallo fuso?» (37,18). La contemplazione del Creato fa infatti intravedere la sapienza di Dio. Ed è partendo da queste perfezioni di Dio nel Creato, da noi contemplate con stupore, che Giobbe può esclamare: «Ora comprendo che tu puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile a te. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono!» (42,5).
La risposta frutto di tante angosce, diventa finalmente chiarezza: Giobbe conosce Dio tramite la bellezza del creato, per poter così conoscere il mistero dell’uomo! Nel dolore, allora, non si cerchi, come Giobbe, uno scudo e nemmeno una spiegazione. Ma si cerchi solo di non essere lasciati soli e di non lasciare solo nessuno! È questo il Vangelo: offrire presenza nella vita di chi soffre. Il “rimanere” di Gesù, accanto al mondo che geme, perché non sia vano quel pugno dato da papa Giovanni Paolo II, sul davanzale della finestra. Allora, anche la pandemia potrà trovare risposta, in uno stile nuovo di dialogo con il creato, fatto rispetto e contemplazione gratuita!
+ GianCarlo Bregantini
Arcivescovo Campobasso-Bojano

 

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