Il 25 aprile divide ancora l’Italia tra chi celebra e chi resta nell’ombra. Tra questi ultimi c’era Vittorio Delli Quadri, maestro elementare stimato da generazioni di alunni agnonesi, la cui storia familiare illumina le profonde lacerazioni della memoria collettiva italiana.
«Mio padre non fu mai attratto da teorie socialiste nonostante le origini poverissime», racconta il figlio Enzo Carmine. «Apprezzava ciò che il fascismo stava producendo: l’Inps, le 40 ore settimanali, l’Iri, le bonifiche delle paludi pontine e pugliesi. Ma non amò mai indossare la camicia nera, a differenza di molti notabili del paese che poi, nel dopoguerra, presero il potere sotto le insegne della Democrazia Cristiana».
La sua odissea iniziò con la chiamata alle armi nel 1941. «Rispose al dovere verso lo Stato e lasciò una moglie e due figli, di cui io, nato nel ‘40. Non lo rividi per sei anni», ricorda Enzo.
«Durante la sua assenza, ricevemmo una cartolina con una croce nera che lo dava per morto. Ricordo mia madre disperata che si dava pugni sulla pancia mentre io, attaccato alla sua gonna, avevo tanta paura».
L’8 settembre 1943 segnò la sua condanna. «Si trovava in Albania quando l’Italia firmò l’armistizio. I tedeschi lo catturarono con tutto il suo battaglione durante una cena e lo deportarono in Polonia, dove gli fu prospettato o combattere con la Repubblica di Salò o finire in un campo di concentramento. Per lui fu una questione d’onore», spiega il figlio. “Dovevi rifiutare!”, gli urlai una volta durante una lite. Non dimenticherò mai i suoi occhi di fuoco: “Io conosco un solo codice, quello d’onore! Chiamato dalle istituzioni, avrei dovuto disertare? Piuttosto la morte che il marchio di disertore”».
Fatto prigioniero dagli Alleati, finì nel campo di Coltano (Pisa). «Vi rimase più di due anni, di cui quasi la metà oltre la fine della guerra dichiarata il 25 aprile 1945», sottolinea Enzo. «Da suoi racconti spezzettati capivo che le sofferenze erano state atroci. Nel campo erano tutti “fascisti” senza nome e senza passato. Si consolava osservando un compagno di sventura molto famoso che, a lume di candela, scriveva quello che oggi il mondo letterario considera uno dei maggiori poemi mai scritti: il grande poeta Ezra Pound stava componendo “I Canti Pisani”. Quella prigionia condivisa con Pound rappresentò per mio padre un paradossale momento di luce in quel periodo buio».
«Il suo ritorno fu segnato da un evento che mia madre considerò miracoloso», racconta ancora Enzo. «Il 24 settembre 1945, raccolse un foglietto strappato con la frase: “Verrà suo marito la Madonna del Rosario”. Fece voto di recitare il rosario quotidianamente se fosse tornato. Il 6 ottobre 1946, proprio durante la messa della Madonna del Rosario, mio padre rientrò a casa dopo cinque anni di assenza».
«Tornò con il marchio infame di fascista e traditore, lui che aveva semplicemente risposto ad una chiamata dello Stato Italiano», evidenzia Enzo con amarezza. «Fu degradato da capitano a soldato semplice e privato del suo lavoro, nonostante avesse vinto un regolare concorso. Il ruolo di maestro elementare gli fu restituito solo qualche anno dopo; nel frattempo, dovette vivere con le elemosine dei suoi parenti. Quando andò in pensione, non gli riconobbero nemmeno gli anni di servizio militare».
«Quella ferita, apertasi l’8 settembre 1943, non si sanò mai», sottolinea il figlio. «Dopo la guerra aderì all’MSI, mentre i veri fascisti della pre-guerra erano diventati quasi tutti democristiani. Non volle mai votare per loro, per il disprezzo che provava, né per la sinistra, sentendosi lontano dall’ideologia comunista».
«Eppure», conclude Enzo, «non sentii mai mio padre gioire delle disgrazie altrui, nemmeno quando cadde il comunismo. Ebbe solo un moto di pietà: “Poveretti, quanto devono aver sofferto!”. In quarant’anni di insegnamento educò circa 200 ragazzi con metodi innovativi, come l’alfabetizzazione diretta o la cartina tridimensionale dell’Italia con sistema elettrico per localizzare le città. Ancora oggi, a vent’anni dalla sua morte, lo ricordano con affetto e commozione. Nessuno riscontrò mai in lui i caratteri di autoritarismo o violenza che si attribuiscono ai fascisti. Ma ancora oggi, mio padre non sarebbe bene accetto in un corteo per la liberazione, nonostante rappresenti una parte della storia italiana che attende ancora di essere compresa».