Vito Gamberale, classe ‘44, si racconta al Sole 24 Ore partendo da dove tutto è cominciato: Agnone, il suo paese natale nel cuore. Seduto di fronte a Paolo Bricco, il manager che ha guidato alcuni dei più importanti enti pubblici italiani riavvolge il nastro della memoria e torna alle radici che non ha mai dimenticato, nemmeno quando sedeva nelle stanze dei bottoni dell’industria di Stato.
«Vengo da una famiglia di umili origini», racconta con quella franchezza che lo contraddistingue.
Ad Agnone, la famiglia era tutto: non solo affetto, ma anche scuola di valori, dove si imparava il senso del lavoro, del sacrificio e della dignità. Il padre, Antonino, aveva una bottega che produceva pasta, come tante nel Molise degli anni Cinquanta e Sessanta, dove si lavorava dall’alba al tramonto per portare a casa il necessario. Gamberale ricorda l’odore di quella bottega, il ritmo delle giornate scandito dal lavoro incessante del padre, un uomo che con la fatica quotidiana manteneva la famiglia. Non c’erano ricchezze, ma dignità, onestà e la consapevolezza che ogni giorno bisognava meritarsi ciò che si aveva.
La madre, Dina, era la colonna portante della casa: faceva quadrare i conti, si occupava dei figli con la dedizione silenziosa tipica di quelle donne. Una famiglia unita dall’affetto e dalla necessità, dove ognuno sapeva di dover fare la propria parte.
Il giovane Vito cresce respirando fin da bambino il valore del lavoro. Aiutava in bottega, osservava il padre, imparando che nulla viene regalato e che tutto si conquista con l’impegno. La famiglia aveva intuito che quel ragazzo aveva qualcosa di speciale. Mentre gli altri bambini giocavano per strada, lui d’estate lavorava.
«Vedevo i miei coetanei giocare mentre io davo una mano nella bottega di mio padre», ricorda. «Sapevo che quello era il mio modo di costruirmi il futuro».
Dopo il liceo scientifico arrivò la borsa di studio, che alleggerì il peso economico sulla famiglia e gli permise di proseguire gli studi a Roma con maggiore serenità. «Senza quella bottega, senza l’esempio di mio padre, senza i sacrifici di mia madre e quella comunità di Agnone che ti insegnava cosa significa appartenere a un luogo, non sarei diventato quello che sono», afferma.
Sono quei valori – il lavoro come dignità, il rispetto per la comunità, la solidarietà e la consapevolezza del bene comune – che lo accompagneranno per tutta la carriera, anche quando si troverà a gestire miliardi di lire prima e di euro poi.
Dalla famiglia e dal territorio nasce anche la sua passione per la politica. Gamberale si forma nella tradizione del socialismo riformista, quello che vedeva nello Stato un motore di sviluppo e giustizia sociale. Si candida pure alle comunali ottenendo un ottimo risultato. «Ero e sono socialista», afferma senza esitazioni, rivendicando una militanza oggi spesso taciuta. Per lui la politica non era carrierismo, ma servizio alla collettività, costruzione di un futuro migliore. «La politica mi ha insegnato a pensare al lungo periodo, all’interesse generale prima che al tornaconto personale».
Per un ragazzo cresciuto ad Agnone, il socialismo riformista rappresentava la speranza che lo Stato fosse dalla parte di chi partiva da condizioni difficili e che il merito potesse prevalere sulla nascita.
La sua storia – da quella bottega ai vertici dell’industria pubblica – ne è la dimostrazione. Il salto da Agnone all’economia nazionale non fu un miracolo, ma il frutto di studio, competenza e di quella determinazione forgiata nei sacrifici dell’infanzia.
Gamberale attraversa da protagonista la stagione d’oro delle partecipazioni statali: Eni, IRI, Italstat, fino alla guida di Telecom. «Amavo e amo l’odore delle fabbriche», confessa. In quell’odore ritrova l’eco della bottega paterna, il senso del lavoro concreto e produttivo.
È stato uno degli ultimi veri manager-ingegneri, formati con cultura tecnica, capaci di leggere un bilancio ma anche di comprendere i processi produttivi. La sua carriera coincide con le grandi trasformazioni dell’industria italiana: dalla goldenage delle partecipazioni pubbliche fino alle privatizzazioni degli anni Novanta e Duemila.
Nel racconto al Sole 24 Ore emerge con forza il suo amore per l’Italia: non un sentimento astratto, ma un legame concreto con il tessuto produttivo del Paese. «L’Italia che amo è quella che produce, che inventa, che lavora», spiega. È l’Italia delle mani che costruiscono e trasformano la materia in ricchezza.
Gamberale parla dell’industria come di una persona cara: con passione, ma anche con preoccupazione. Quella stagione in cui lo Stato sapeva fare impresa e pianificare investimenti sembra ormai un ricordo lontano. «Oggi non abbiamo una vera politica industriale pubblica», denuncia. Gli interventi statali sono episodici, dettati dall’emergenza, privi di una visione strategica di lungo periodo. «Servirebbe un nuovo IRI», sostiene, non per nostalgia ma per necessità: le grandi sfide del presente – transizione ecologica, digitalizzazione, competizione globale – richiedono strumenti pubblici forti e coordinati. Il problema, aggiunge, è anche di classe dirigente: mancano competenze tecniche, prevale una logica finanziaria di breve periodo. «Le partecipate pubbliche vengono gestite come asset finanziari, non come strumenti di sviluppo del Paese».
Nell’intervista, il manager molisano lancia un monito: senza recuperare quella cultura tecnica, quella passione per il “fare” e i valori di servizio pubblico che segnarono la migliore stagione dell’industria di Stato, l’Italia rischia di perdere la sua vocazione industriale.
E il cerchio si chiude, tornando ad Agnone: a quella bottega dove il padre lavorava dall’alba al tramonto, alla madre che teneva insieme la famiglia con i suoi sacrifici silenziosi, a quel bambino che studiava mentre gli altri giocavano, consapevole che quello era il prezzo del futuro.
«Dalla mia famiglia ho imparato che il lavoro è dignità, che lo Stato può essere motore di sviluppo se gestito con competenza e onestà, che bisogna pensare al bene comune prima che al proprio», conclude.
«Mio padre mi ha insegnato il valore del sacrificio, mia madre la tenacia, Agnone il senso di appartenenza».
Parole che suonano come un testamento morale: da quella piccola bottega ai vertici dell’economia italiana, Vito Gamberale ha portato una lezione semplice ma attuale – l’economia non è solo finanza e bilanci, ma persone, comunità, territorio.
L’industria pubblica, se ben gestita, può ancora essere lo strumento per un Paese più giusto e forte, dove un ragazzo di umili origini possa sognare di cambiare il proprio destino.
Un messaggio che, a sentire le sue parole, oggi sembra drammaticamente inascoltato. ppm























