Primo settembre a Bojano significa una sola cosa: Sant’Egidio, il giorno in cui la città si mette in cammino verso la montagna e misura il proprio respiro sul ritmo antico dei faggi, dell’acqua di fonte e della devozione, in un rito collettivo che molti sentono persino più identitario della festa patronale di San Bartolomeo del 25 agosto.
Archiviata la settimana del santo patrono, il calendario dei bojanesi si azzera e riparte dall’eremo: una soglia simbolica, quasi un capodanno di comunità, in cui si lascia la piana per risalire i crinali del Matese e ritrovare, tra preghiere e risate, la grammatica profonda della convivenza.
A 1025 metri circa, l’eremo di Sant’Egidio appare come un romitorio di pietra abbracciato dal bosco, con la piccola chiesa e la fonte di acqua limpida che sgorga a pochi passi, rito nel rito per chi arriva assetato di natura e silenzio. La struttura, la cui origine è collocata tra IX e X secolo come cenobio lungo l’antico asse tra Civita Superiore e Roccamandolfi, fu rifugio di eremiti e viandanti ed è tuttora memoria di un luogo frontiera.
Domani, 31 agosto, Bojano scioglie i nervi in una “processione pagana” diventata, negli ultimi decenni, un prologo irrinunciabile: la banda cittadina guida un corteo che attraversa i quartieri tra soste conviviali, banchetti improvvisati, canti e calici di casa, un pellegrinaggio laico che rinsalda legami e prepara all’ascesa del giorno dopo. È l’altra faccia della festa, il lato comunitario e festoso che accompagna la dimensione religiosa come il contrappunto di una stessa melodia popolare.
All’alba del primo settembre, famiglie e gruppi di amici puntano all’eremo: zaini in spalla, tende arrotolate, l’ultimo tratto a piedi tra ombre fresche e radure, finché il suono della banda e delle campane s’incontra sul pianoro. Le messe e la processione con l’effige del santo culminano davanti alla chiesa, mentre la leggenda della cerva che nutrì l’eremita riaffiora nei racconti tramandati attorno ai fuochi, nel fruscio delle fronde che sembra custodirne il ricordo.
Finita la liturgia, esplode la “festa della montagna”: panche, bracieri, partite di morra che scaldano le mani e l’allegria, tende che fioriscono tra le radure, notti di chiacchiere e stelle, la promessa tacita che almeno una volta l’anno tutti tornano su, per ritrovare quella misura semplice delle cose che fa sentire a casa. Non di rado la permanenza si prolunga di qualche giorno, fin quando le famiglie smontano i campi e il bosco torna a un respiro più ampio, come se avesse accolto e poi accompagnato a valle la sua gente.
Attorno a Sant’Egidio pulsa una tradizione che non smette di rigenerarsi, anche grazie a chi porta su la musica, le storie, le tende; a chi trasforma il rito in festa, senza scalfirne la sostanza, che resta l’incontro tra una comunità e la sua montagna. L’acqua della fonte, bevuta a mani giunte, chiude spesso il cerchio: un gesto semplice che sa di battesimo laico, di ritorno alla purezza del verde molisano che qui pare non tramontare mai.
La festa, ad ogni modo, vive anche di regole condivise. Quelle scandite dal Regolamento comunale sul campeggio, oltre a quelle previste dall’ordinanza del sindaco con cui il primo cittadino disciplina le giornate del 31 agosto e 1 settembre nelle aree Sant’Egidio–Pozzilli–Serre–Valli San Giovanni, consentendo la somministrazione di cibo e bevande solo a gestori autorizzati e vietando espressamente vendita di superalcolici, uso di contenitori in vetro o lattine e emissioni sonore da strumentazione elettroamplificata, con sanzioni amministrative previste in caso di violazioni e richiamo ai divieti di somministrazione di alcol ai minori. L’obiettivo del provvedimento – si legge – è tutelare salute e quiete senza snaturare l’anima della ricorrenza, che chiede solo attenzione, misura e cura del luogo.
Se c’è un segreto che spiega la persistenza di Sant’Egidio, è il suo essere rito d’andata e ritorno: si sale per ritrovare un’origine comune, si scende portando con sé un po’ di quella luce filtrata dai faggi, un’eco di voci e di passi che ogni anno riscrive l’alfabeto di Bojano. È un patto antico, rinnovato in cammino, come un respiro profondo che fa bene al corpo e all’anima, e che al primo settembre torna a dettare il tempo, la misura, il senso di casa.


























