È una giovane donna di 33 anni, una professionista arrivata a Campobasso da un’altra regione per ragioni di lavoro. La chiameremo Elena. È provata, affaticata nel corpo e nella mente, ma allo stesso tempo sorprendentemente lucida: ha deciso di parlare perché «il silenzio non protegge». La incontriamo a pochi giorni dall’aggressione subita nel parcheggio di un supermercato della zona industriale, un episodio che ha scosso profondamente la città.
Parla a voce bassa, a tratti si ferma, ma non arretra di un centimetro.
Può raccontare, per quanto si sente di farlo, cosa è accaduto quella sera?
«Ero uscita dal supermercato. Un uomo, sulla quarantina, mi ha chiesto se poteva aiutarmi con la spesa. Ho detto di no, ma ha insistito. Avevo una busta in una mano e una cassa d’acqua nell’altra, così ho pensato di dargli qualche euro per farlo andare via. È stato in quel momento che mi ha sottratto la cassa e ha insistito per portarla all’auto.
Gli ho dato due euro mentre ci avvicinavamo alla macchina. Ho aperto il bagagliaio e lui ha appoggiato la cassa. Avevo paura che potesse prendere lo zainetto che era lì dentro, quindi mi sono avvicinata. All’improvviso ho sentito un dolore fortissimo alla testa: aveva afferrato lo sportellone e, chiudendolo con forza, mi ha colpita.
Ero frastornata. Lui si è avvicinato e ha iniziato ad accarezzarmi la testa. L’ho allontanato, gli ho fatto segno di andare via. Ma quando ho provato ad aprire lo sportello per salire in auto, mi ha strattonata per il cappotto. Ha tentato di baciarmi. Ho sentito la sua saliva sulla faccia, sulle guance, poi sulla bocca.
Sono riuscita a spingerlo via e a salire in macchina. Ho chiuso la sicura, ero pietrificata. Mi pulivo perché avevo la sua saliva addosso… Lui intanto batteva con le mani sul vetro e continuava a ripetere: “Signora, è tutto a posto”. Io non riuscivo a reagire. Mi sentivo smarrita, paralizzata».
Cosa ricorda con più lucidità di quegli istanti?
«La saliva. È la prima cosa che mi torna in mente. Mi sono sentita sporca, violata. Poi è arrivata la paura, quella vera.
Subito dopo, un’altra ondata: le domande.
Ho sbagliato qualcosa? Ho fatto qualcosa che poteva incoraggiarlo? E se non mi credono?
Indossavo un vestito di lana, un cappotto: faceva un freddo tremendo. Eppure mi sono chiesta se fossi vestita “nel modo sbagliato”.
Poi non capivo perché non avessi reagito subito con forza. Ma quando il terrore ti blocca… è come se il corpo non fosse più tuo».
Come si sente oggi, a distanza di qualche giorno?
«Male. Ci sono pensieri che non mi lasciano. Ho paura di uscire, paura di tornare in quel posto. Mi sento… bloccata.
E continuo a ripetermi: e se fosse capitato a una ragazzina? A una donna più fragile, che non sarebbe riuscita a divincolarsi?
Ho sentimenti contrastanti: paura, rabbia, senso di colpa. Anche se so che non ho alcuna colpa».
Poi è andata in questura per denunciare.
«Sì. Anche se sapevo che sarebbe stato un percorso lungo e difficile. Raccontare, ricordare, scendere nei dettagli… È devastante. E so che dovrò rifarlo davanti ai giudici.
Ma ho incontrato persone meravigliose. In questura mi hanno accolta con una delicatezza che non dimenticherò mai. Mi hanno ascoltata, creduta, sostenuta. E non è scontato.
Vivo a Campobasso per lavoro, sono sola. Non avere la famiglia accanto, in questi momenti, è devastante. Ma lì mi sono sentita protetta».
Anche in ospedale?
«Sì. Al Pronto soccorso sono stati impeccabili. Il medico ha contattato subito il centro antiviolenza, attivando tutte le procedure del Codice Rosa. Professionalità e umanità, insieme. Mi hanno fatto sentire al sicuro».
C’è qualcosa che vorrebbe dire alle donne che leggono questa intervista?
«Di denunciare. Anche quando si tratta “solo” di insistenza. Credo che quell’uomo sia arrivato a tanto proprio perché nessuno aveva fermato i comportamenti precedenti.
Mi sono fatta mille domande, ma oggi so che non ho sbagliato nulla. E lo ripeto a ogni donna: non avete colpa.
Serve fiducia nelle istituzioni: chi sbaglia deve pagare. E lo dico chiaramente: il colore della pelle non c’entra. È la condotta che conta».
Secondo lei servirebbe aumentare i controlli?
«Credo che le forze dell’ordine facciano molto. Quello che serve, forse, è più luce in alcune aree. E più senso civico».
Senso civico?
«Sì. Mi hanno detto che quell’uomo era stato già insistente con altre persone. Quasi molesto. Forse andava segnalato. Se qualcuno lo avesse fatto prima, magari oggi non sarei qui a raccontare quanto accaduto».
L’episodio era evitabile?
«Se chi ha dato fastidio fosse stato fermato prima, sì, forse sarebbe stato evitabile.
Ma non voglio demonizzare chi chiede aiuto, chi elemosina. Non vanno fatti “fasci”. Ma chi agisce illegalmente, chi molesta, chi spaventa… va fermato».
Elena chiude gli occhi un istante, respira profondamente. Le mani tremano appena. Ma la voce, quando riprende, è più ferma di prima.
«Mi hanno tolto la serenità. Ma non mi toglieranno il coraggio. Denunciare è stato difficilissimo, ma è stata l’unica strada per riprendermi la mia dignità.
Se la mia storia servirà a proteggere anche solo un’altra donna, allora tutto questo dolore avrà un senso».
Poi si alza, raccoglie la borsa e saluta con un sorriso fragile ma vero.
Un sorriso che somiglia più a una promessa che a una speranza: la promessa che questa ferita non resterà in silenzio.
Luca Colella

























