“Da Mani Pulite… ai giorni nostri. Tra politica e informazione”. Un evento che attirerà tantissima gente, domani sera, alle ore 17.30, a Termoli, presso il Cinema Sant’Antonio. Una serata di riflessione e confronto sulla storia recente del nostro Paese, sui temi della giustizia, della politica e del ruolo dell’informazione. Ospite speciale: Antonio Di Pietro, con la presentazione di Andrea Montesanto e gli interventi di Massimo Romano e Pino Ruta. Proprio per entrare nel clima giusto dell’iniziativa, siamo stati accolti a casa Di Pietro, a Montenero di Bisaccia, per una chiacchierata a tutto campo con un personaggio che ha fatto la storia contemporanea.
Un’occasione per riflettere su 33 anni di storia italiana, a partire da Mani Pulite fino ad arrivare ai giorni nostri, passando per politica, informazione e legalità.
«Mi è stato chiesto di raccontare ciò che definisco una fotografia dinamica: quella che abbiamo scattato nel 1992 con l’inchiesta Mani Pulite, e come questa immagine si è trasformata nel tempo. Cosa è rimasto di buono e cosa no? Ecco, di questo parleremo». Di Pietro non vuole riscrivere la storia. Piuttosto, intende riappropriarsene, raccontando la propria versione: «Ne ho sentite e lette tante. Ogni volta mi dicevo: ma io lì c’ero. Allora forse è giusto raccontarla, la mia verità. Lasciare che poi gli altri decidano da che parte sta». Nel 1992, Di Pietro era l’italiano più conosciuto. Bruno Vespa disse che nella metropolitana la gente lo guardasse come si guarda alla Madonna. «La verità? Non ho scoperto l’acqua calda: quel sistema di tangenti ambientali, dove se fossi stato dalla parte giusta avresti ricevuto, se no niente, lo conoscevano tutti. Ma la gente ha sentito che qualcosa cambiava: potenti e poveri cristi finivano sulla stessa sedia. È lì che il cittadino ha ritrovato l’orgoglio». Ma le rivoluzioni, si sa, bruciano in fretta. «Come le candele: nascono, illuminano, e poi si spengono. Mani Pulite ha cambiato la storia, ma si è fermata a un passo dalla svolta epocale. Quando cerchi di salire una piramide, più vai in alto, più il cammino si fa difficile, e qualcosa – o qualcuno – ti ferma». Cita i magistrati caduti in quegli anni: Livatino, Falcone, Borsellino. E racconta: «A me è andata bene. Hanno provato a farmi fuori. Non riuscendoci, hanno scelto un’altra strada: la delegittimazione. La cosiddetta ‘morte civile’. Mi ha impedito di arrivare in cima, ma mi ha permesso due cose: essere ancora qui a raccontarlo e dimostrare la mia innocenza». E aggiunge con forza: «Non solo sono stato assolto. Ma chi mi accusava è stato condannato: Berlusconi, il presidente della Corte di Cassazione, un giudice della Corte costituzionale, persino il generale della Guardia di Finanza che coordinava le indagini. E tanti altri. Sono orgoglioso di aver smascherato chi tramava contro di me». La sua non è vittimismo. È un racconto lucido, diretto, che non nasconde le ferite: «Ho rischiato anche a livello personale. Alcune volte sono stato ‘prelevato’ da chi doveva proteggermi. Ma non era tanto la mia vita a preoccuparmi, quanto quella dei miei familiari. Tant’è che li mandai fuori continente». Poi la metafora più incisiva: «Nel ’92 avevamo davanti un paese malato di tumore. Con l’inchiesta, tra il ’92 e il ’94, è stato eseguito un intervento chirurgico. Ma un tumore, se non lo curi e non lo previeni, torna. Magari con forme diverse. Oggi quella malattia si è trasformata, è più subdola». Tangentopoli e Mafiopoli, per Di Pietro, erano due facce della stessa medaglia. «Falcone e poi Borsellino cercavano di colpire la mafia negli appalti. La mafia si è evoluta: dalla coppola agli affari, dalla lotta allo Stato alla lotta nello Stato. Oggi si veste in giacca e cravatta, segue le regole per scopi illeciti. Non ha più bisogno di minacciare: fa studiare uno dei suoi e lo mette lì, dove serve». Uno dei momenti più difficili fu il suicidio di Raul Gardini: «Uno dei pesi più grandi della mia coscienza. Non me l’aspettavo. Gli avevo promesso un’alternativa, che si fidasse delle istituzioni. Forse non sono stato convincente. O forse non riusciva ad accettare l’idea di non essere più al comando. Ma io c’ero, e posso dire con certezza: non è stato ucciso. Lo ha deciso lui». Il salto dalla magistratura alla politica lo ha visto due volte ministro. Alla domanda, si rimprovera qualcosa? «Chi lavora sbaglia. Ma una cosa è l’errore umano, un’altra è usare il potere per scopi illeciti. Io non l’ho mai fatto. Non ho mai firmato un atto giudiziario per motivi politici. Facevo il Pm, e facevo il mio mestiere». Sulla differenza tra politica e magistratura: «Fare il Pm è difficile, ma lineare: rispetti la legge, punto. Fare politica è più complicato, soprattutto se vuoi essere onesto. Devi trovare compromessi, ma restando dentro la legge. Quindi sì, è più difficile essere un politico onesto». L’Italia dei Valori è stato un fenomeno inedito. «Un partito personale, nato in un momento in cui la gente aveva perso fiducia. Insieme a Bossi, Berlusconi, Renzi, Grillo… sono tutti partiti personali. Portavamo la protesta dalle piazze alle urne. Ma quando il leader esce di scena, il partito muore. Per questo, ho lasciato. E perché nel frattempo è nato il Movimento 5 Stelle. Io e Beppe Grillo ci siamo visti spesso: siamo stati un po’ fratelli politici».
Oggi, Di Pietro non fa più politica istituzionale, ma resta un cittadino attivo: «La politica non mi manca. Mi manca fare qualcosa per cambiare le cose, quello sì. Ma oggi lo faccio da cittadino, prendendo posizione, contestando, sostenendo. Mia figlia mi ha detto: papà, basta. E ho rispettato questa scelta». Lo sguardo si allarga ai temi internazionali: “Non condivido il racconto a senso unico su certe guerre. Putin è un cane che morde, e lo contesto. Ma non dimentichiamoci il ruolo della Nato in tutto questo. Se vai a stuzzicare un cane, prima o poi ti morde. Le responsabilità sono condivise». E cosa serve, oggi, all’Italia e al Molise? La risposta è secca: «Classe dirigente e soldi. E anche il coraggio dei cittadini». Poi sul ricorso al Tar contro le addizionali provocate dal commissariamento della sanità, gli è stata data ragione nel merito, ma lo ha bocciato nella forma: «Non sei legittimato a farlo, non sei un ente pubblico». Commenta amaro: «Sono a mani nude. Allora mettiamoci qualcuno che qualcosa in mano ce l’ha davvero».

Emanuele Bracone

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