A grandi falcate ci si avvicina alla serata del 9 luglio, quando al Teatro Verde è in programma uno degli eventi estivi più attesi: Paolo Crepet salirà sul palco con lo spettacolo “Il reato di pensare” (inizio ore 21), a cura di Mia Eventi Live.
Il reato di pensare è un impercettibile filo spinato che inibisce la mente di chi ancora vorrebbe immaginare senza paura di riflettere su ciò che sta pensando.
Da che mondo è mondo, despoti, potenti, dittatori, ma anche semplici cittadini – basterebbe pensare alle relazioni sentimentali e familiari – hanno temuto il pensiero libero. La storia insegna che i conflitti sono nati per sradicare, impedire, punire chiunque abbia cercato di esprimere le proprie opinioni.
Il linguaggio – ogni forma espressiva – è lo strumento più facile da controllare; non il pensiero, che rimane spesso celato, alimentando sospetti, paranoie, dubbi su fedeltà e obbedienza, disponibilità alla sudditanza, propensione al tradimento. Per questo l’immaginazione è sempre più ricca delle parole, quindi insidiosa e potenzialmente pericolosa.
Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il professor Crepet, tra i volti più noti al grande pubblico.
Professore Crepet, cos’è per lei il “reato di pensare”?
«È ciò che stiamo vivendo. È una condizione, prima ancora che una definizione. Una condizione alimentata da tante dinamiche diverse che si intrecciano tra loro: il bisogno di consenso, la pervasività dei social, la crescente difficoltà ad esprimersi liberamente. Siamo immersi in una sorta di conformismo diffuso che non ha nulla a che vedere con la politica, ma con la psicologia sociale: conserviamo ciò che pensiamo di sapere, non produciamo idee nuove, non ci poniamo domande. E così finiamo per accettare tutto, senza spirito critico. È una comunità che si sta divaricando, sempre più dominata dall’odio, dall’insofferenza e – questo è forse il più grave dei mali – da una mediocrità formativa dilagante».
Questa deriva è quindi alla base di un’involuzione sociale più ampia?
«Sì, e non riguarda solo l’Italia. È un movimento globale, in cui si cerca di affermare un pensiero unico, standardizzato. Il problema è che accanto a questo “occupante”, come lo chiamo io, che impone il suo modo di vedere le cose con arroganza, non c’è un contraltare solido. Le voci critiche ci sono, ma sono flebili, timide, spesso postume. E ci chiediamo: dov’è la responsabilità? Nella scuola? Nella famiglia? Nella comunità? La verità è che siamo tutti coinvolti».
Lei insiste spesso sul tema della formazione. Perché lo considera centrale?
«Perché da lì passa tutto. Se le università smettono di formare pensiero e cominciano a censurarlo in nome del politicamente corretto, allora non stiamo più educando, stiamo addestrando. E chiunque abbia a cuore il futuro dovrebbe preoccuparsi di questo. Il “buonismo”, per come lo intendiamo oggi, è uno degli ingredienti principali del reato di pensare. Ma è un buonismo sciocco, privo di senso critico. Adeguarsi a un linguaggio che non rappresenta ciò che si sente davvero è un limite. Un bambino non dovrebbe essere costretto ad adattarsi a un modello che nega anche la fantasia».
In questa società iperconnessa e digitale, come si può trovare un equilibrio?
«Serve misura. Di recente il ministro dell’Istruzione ha proposto di vietare l’uso di dispositivi digitali fino alla terza media. Alcuni hanno gridato allo scandalo, ma non hanno capito il senso profondo della proposta: dare ai bambini uno spazio di libertà, di creatività, di relazione autentica, senza mediazioni digitali. Non è una caccia alle streghe, è un tentativo di restituire tempo alla mente».
Parla di “censura autoindotta”. Anche in relazione all’intelligenza artificiale?
«Assolutamente. L’AI rischia di amplificare questa deriva. Si dice che non dovremo più fare nulla, che qualcun altro – qualcosa di non umano – penserà per noi. Ma siamo sicuri di volere questo? È l’evoluzione estrema del copia-incolla, che ha già distrutto l’originalità. Se oggi è raro trovare un pensiero logico e coerente, è anche perché pochi sono disposti a rischiare, a uscire dal mainstream. Troppi hanno paura di essere giudicati».
Quanto peso hanno i media in tutto questo?
«I media fanno parte del mercato. Il cartaceo sta scomparendo: oggi le edicole sono in via d’estinzione. Occorrerebbe occuparsene, non come forma di sovvenzione, ma come impulso ideale. La cultura deve essere un diritto, non un lusso».
Come si torna a stimolare fantasia e creatività?
«Incontrandosi. Parlando. So che è difficile, ma non è impossibile. Occorre rimettere al centro la comunità, ritrovare il senso del legame sociale, soprattutto in territori in crisi come Termoli, dove sta chiudendo la Fiat. Stiamo parlando di generazioni intere, 40-50enni, che non chiedono un futuro, chiedono solo di poter andare via. E quando una comunità smette di desiderare, di sognare, smette anche di vivere».
Conseguenze sociali pesantissime.
«Ovviamente. Dove c’è vuoto, aumentano i problemi: alcolismo, violenza, devianza. Se ne accorge chiunque abbia occhi per vedere. Il dramma è che non reagiamo, non ci indigniamo più. Magari qualcuno ci guadagna, ma il costo collettivo è altissimo».
Se avesse una bacchetta magica, quali sarebbero le tre azioni urgenti da compiere?
«La prima cosa: cambiare profondamente la scuola. Rimetterla al centro. Investire in formazione vera, in pensiero critico, in cultura. Da lì si origina tutto: un pensiero libero genera creatività, e la creatività produce nuove idee, nuove economie. Il Novecento è nato da questo, non dalla ricchezza, ma dall’ingegno.
Secondo: ripensare il modello economico. L’elettrico, per esempio, ci è stato venduto per decenni come la panacea di tutti i mali. Ma oggi sappiamo che non è così. È un’illusione. E se la Fiat chiude, un motivo c’è. Forse abbiamo creduto troppo a promesse infondate. Eppure, nessuno lo dice. Nessuno parla del fatto che la Fiat non è più la Fiat: ha un altro nome, altre logiche. E lo Stato ha investito miliardi, anche in passato, per tenerla in vita.
Terzo: ritrovare un collante sociale. Perché se ognuno pensa “si salvi chi può”, allora è la fine. Lo Stato è un insieme di individui, non un’entità astratta. Ma se lo Stato sparisce dai territori, se le istituzioni balbettano – come oggi fa l’Occidente, come fa la Nato – allora il legame si spezza. E quando si spezza il legame, tutto si disgrega».
Emanuele Bracone

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