È il tesoretto del cervello, quel surplus di neuroni, sinapsi e connessioni che permette di resistere meglio agli effetti del tempo. L’hanno chiamata ‘riserva cognitiva’(RC) e indica una potente forma di protezione dalle malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson ma permette anche un migliore recupero in caso di traumi cerebrali o ictus.
La “riserva” è stata descritta per la prima volta nel 1988 da Robert Kaztmann dell’Università di San Diego sulle pagine degli Annals of Neurology e si basava sull’evidenza derivata dalle autopsie di 137 residenti di una Rsa di età media 85 anni al decesso, che evidenziavano segni cerebrali di neurodegenerazione, senza averne mostrato i sintomi in vita. Dieci di loro presentavano i segni anatomici della demenza ma le loro cartelle cliniche indicavano risultati ai test cognitivi superiori rispetto ai loro coetanei sani.
Questa evidenza ha portato a ipotizzare l’esistenza di un “tesoretto” di neuroni di grande efficacia. Più di recente all’idea di una dotazione determinata geneticamente si è integrata l’idea che tale riserva possa essere costruita nel tempo, sino a riconoscerne i fattori favorenti.
«Presso il nostro istituto – afferma Giovanni de Gaetano, presidente dell’Irccs Neuromed – si svolgono da anni studi epidemiologici, clinici e sperimentali sui fattori di rischio o di prevenzione della salute e delle malattie croniche degenerative. Siamo anche interessati alle condizioni che determinano l’età biologica dell’organismo in toto e di alcuni organi in particolare, come il cervello. L’età cronologica conta, ma l’età biologica appare ancor più cruciale per un invecchiamento di successo».
Ambiente e stili di vita sono stati riconosciuti come fondamentali: quoziente intellettivo, livello di scolarità, tipo di lavoro, relazioni sociali, attività del tempo libero agiscono sinergicamente per “mettere da parte” neuroni e connessioni di qualità, da utilizzare in caso di bisogno, fenomeno confermato anche da Yacov Stern che ha approfondito le ricerche a metà degli anni ‘90.
«Gli stili di vita sono la chiave di una longevità vissuta in salute – sottolinea il dottor Fabio Beatrice, direttore del board di Mohre – siamo responsabili di come invecchierà non solo il nostro corpo ma anche il nostro cervello. Dovremmo pensare ai nostri comportamenti positivi e negativi come capaci di determinare un punteggio sommatorio. Ma abbiamo scoperto anche che i vari comportamenti dannosi agiscono in maniera differente sull’organo della cognizione: il consumo di alcol determina alterazioni strutturali mentre il fumo danneggia il funzionamento delle strutture. I loro effetti combinati, quindi, sono molto maggiori della loro somma, specialmente nel cervello delle persone anziane. Una delle scoperte più interessanti delle neuroscienze è proprio che il cervello non è rigido, ma flessibile e sensibile all’esperienza. Gli stimoli ambientali influenzano il cervello modificandone la struttura fisica e l’organizzazione funzionale nel corso della vita».
Maggiore istruzione, migliore protezione. La riserva cognitiva influenza l’età di esordio, la velocità di progressione e le manifestazioni evidenti di demenza e di Alzheimer in particolare. Tra i fattori che contribuiscono alla costruzione della riserva di neuroni e connessioni c’è sicuramente l’istruzione e la sua durata: maggiore è il numero di anni è dedicato alla formazione, maggiore è la protezione a cui si può ambire. La riserva protegge anche nelle forme più blande di deficit come il Mci: dei 273 anziani reclutati nello studio, affetti da disturbi della memoria auto riferiti, mild cognitive impairment o demenza, quelli con Mci che avevano un titolo di studio universitario erano significativamente più anziani, a testimoniare che la riserva esercita un effetto tampone per alcuni anni. Non solo il deterioramento insorge più tardi, ma le prestazioni come fluidità verbale erano migliori.
Allo stesso modo contribuisce ad esempio il bilinguismo: lo sforzo di apprendere due o più lingue in età infantile, permette di ritirare degli interessi in età avanzata con segni di demenza che rimangono nascosti per molti anni prima di manifestarsi. È stato stimato che più della metà della popolazione mondiale parla regolarmente due o più lingue. Negli Stati Uniti, circa il 20% della popolazione a casa parla una lingua diversa dall’inglese.
«Dobbiamo intercettare i fumatori storici, con una storia lunga alle spalle, che pensano di non poter smettere, che hanno effettuato diversi tentativi e altrettante ricadute: un interessante studio apparso su Hippocampus ha mostrato che questa zona del cervello, correlata alla memoria emotiva, ad un certo punto inizia ad invecchiare velocemente. Si ritiene che il suo volume diminuisca di circa lo 0,52% l’anno, ma in un gruppo di donne con una storia di forte tabagismo, sottoposte ad imaging cerebrale mostrava un volume dell’ippocampo del 7,4% più piccolo rispetto alle fumatrici lievi o alle non fumatrici. E nel campione di donne di mezza età esaminate con una storia di fumo da moderato a forte, fumare determinava una atrofia equivalente a 12 anni di età in più» – aggiunge Fabio Fabio Beatrice.
Cambiamenti strutturali del cervello sono reversibili con addio alle “bionde”. Non basta l’avanzare dell’età a determinare un rallentamento delle facoltà cognitive, il tabagismo rappresenta un vero e proprio “carico da 12”: tutte le evidenze hanno suggerito che i fumatori hanno, in media, un funzionamento cognitivo globale più scarso in età avanzata con punteggi medi più bassi in diversi domini come flessibilità cognitiva e memoria. Inoltre il fumo è associato a un aumentato rischio di demenza: quasi il 14% dei casi di malattia di Alzheimer nel mondo può essere attribuito al fumo. Già nel 2015 una ricerca di Nature aveva sottolineato che la corteccia cerebrale dei soggetti che smettono di fumare ha bisogno di almeno 25 anni per il completo recupero della funzionalità delle aree corticali. La cessazione favorirebbe quindi una reversibilità dei danni, ma in un lasso di tempo estremamente lungo.
Ictus e traumi cerebrali: recupero più lento nei fumatori. La barriera ematoencefalica serve ad impedire a sostanze potenzialmente dannose di entrare nel sistema nervoso centrale (Snc) e vieta alle cellule immunitarie periferiche del corpo di penetrare nel tessuto cerebrale. La compromissione post-traumatica della barriera emato-encefalica è un fattore grave che provoca la perdita di tessuto nervoso. Il tabagismo cronico influenza negativamente la guarigione da trauma cranico, ciò a causa della azione pro-infiammatoria data dai prodotti della combustione del tabacco. Il fumo aumenta anche l’insorgenza e la progressione delle principali malattie neurodegenerative e cerebrovascolari attraverso vari meccanismi.
Più di recente è stata evidenziata la stretta correlazione tra stili di vita malsani e condizioni cerebrali: relazioni tra Bmi, consumo di alcol, sonno, fumo e mancanza di esercizio fisico hanno effetti sul volume della materia grigia del cervello, quella formata dai neuroni e le loro connessioni.
«Lo stile di vita – spiega in dottor Giacomo Mangiaracina, esperto di salute pubblica e direttore dell’Agenzia nazionale per la prevenzione – può favorire o proteggere il declino cognitivo: mentre l’attività fisica e sociale può proteggere dal declino strutturale, altri comportamenti di stile di vita possono essere fattori di accelerazione. In una ricerca è stato esaminato se lo stile di vita più rischioso fosse correlato all’invecchiamento cerebrale accelerato utilizzando il punteggio BrainAge in 622 anziani della coorte 1000Brains. Sono stati valutati gli stili di vita protettivi e non con interessanti conclusioni: un fattore di rischio aumenta l’età cerebrale di 5.04 mesi l’anno: con le sigarette che “pesano” per 0,6 mesi per ogni pacchetto fumato e l’attività fisica che invece “ringiovanisce” e mette indietro le lancette dell’età».

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