«Sono stata usata io, rappresentante dell’istituzione, per ferire lo Stato. A me fa schifo questa cosa, a me fa schifo la mafia. Fanno schifo tutte quelle persone che utilizzano le istituzioni per ferire lo Stato… Vedere accostato il mio nome a lui che presuntivamente è collegato ad ambienti mafiosi mi ferisce in una maniera che non auguro nemmeno al peggior nemico».
È il momento clou del racconto di Giuseppina Occhionero a Fuoco incrociato, ieri sera. Una storiaccia, quella in cui la parlamentare di Campomarino si è trovata coinvolta. Una brutta storia di cui il 4 novembre scorso è solo la punta dell’iceberg.
È un lunedì. La deputata è a Campomarino, si sta preparando per partecipare alle tradizionali celebrazioni delle forze armate. Da qualche giorno è passata da Leu a Italia Viva, quindi è nella bufera sui social e non solo. Sono i nuovi «compagni di viaggio» ad avvisarla: il cordone di sicurezza dei renziani scatta alle prime agenzie.
Antonello Nicosia è finito in carcere, accusato di fiancheggiare la primula rossa di Cosa nostra. In carcere, al seguito dell’onorevole Occhionero, il 48enne di Sciacca entrava per prendere e portare messaggi agli affiliati di Matteo Messina Denaro, che lui chiamava il primo ministro. È la pista che la Procura di Palermo segue da un po’. Da quando Nicosia era assistente della deputata molisana. «Poi ho visto le mie immagini al Tg5, a La7, insieme a questo signore. Accostata alla mafia, per me era assolutamente impensabile».
Sono passati tre mesi, i primi giorni sono stati i peggiori: brandelli di intercettazioni telefoniche e ambientali che svelano a lei chi è Nicosia e cosa trama alle sue spalle, uno che definisce Falcone e Borsellino «vittime di un incidente sul lavoro». Intercettazioni che al resto del mondo fanno immaginare rapporti, insinuano dubbi su di lei, che, al meglio, è una sciocca. «Una stupida, per non usare termini più pesanti e offensivi».
Nicosia aveva un contratto da assistente di Occhionero da gennaio 2019, a dicembre era già entrato con la parlamentare di Campomarino in alcune strutture penitenziarie. E lei lo aveva qualificato suo collaboratore. Per questo, è indagata per falso. Ma si dice certa che la vicenda si chiarirà presto, il regolamento carcerario – spiega – non richiede un contratto formale. Soprattutto, questo procedimento nulla c’entra con quello per cui Nicosia è ancora in carcere.
Su Teleregione, tre mesi dopo quello che le sembrò un incubo – e che non le ha risparmiato un blitz delle Iene né richieste di dimissioni dal Parlamento – Giusy Occhionero ha ripercorso ieri sera per la prima volta la vicenda.
Nicosia era noto come esperto in trattamento penitenziario, faceva parte del direttivo nazionale dei Radicali, un curriculum di tutto rispetto. Peccato non fosse docente all’Università di Palermo, vi teneva seminari. Peccato avesse alle spalle condanne pesanti per traffico di droga. Se il fine della pena è rieducare e se della condanna ha saputo solo dopo l’arresto, tuttavia Giusy Occhionero decise di troncare la collaborazione – e a maggio comunicò la fine del contratto a Montecitorio – perché scoprì la bugia – «sciocca, inutile, inopportuna» – sulla docenza all’ateneo palermitano.
Per il resto, nei mesi delle visite compiute in sette penitenziari (e nel progetto ne era prevista anche una a Campobasso), Occhionero non ritiene di aver mai deviato da quella che era la finalità del progetto che Nicosia aveva sottoposto anche ad altri parlamentari: verificare le condizioni dei detenuti e degli operatori.
A Tolmezzo, era consapevole di avere di fronte il cognato di Messina Denaro? «Guardi, no», la sua risposta. Col parlamentare, ha poi spiegato, ci sono sempre il direttore o un suo sostituto, il comandante della Penitenziaria o un suo delegato e almeno tre o quattro guardie. «Quando si fanno queste visite non c’è la possibilità di conoscere il nome, il cognome e le motivazioni per cui quella persona è ristretta, sono notizie che noi non possiamo avere». A Tolmezzo c’è, solo sulla carta, una casa lavoro. Una serra distrutta anni fa e mai ricostruita per cui i detenuti in realtà sono reclusi e basta, mentre la loro condizione giuridica dice altro. Dopo le ispezioni, la deputata ha prodotto degli atti, interrogazioni che però passano al vaglio degli uffici legislativi, «uno screening che non consente di utilizzarli a propria volontà», come invece pure si è ipotizzato solo sui media perché al contrario gli inquirenti palermitani hanno escluso da subito alcun coinvolgimento di Giuseppina Occhionero nell’inchiesta per mafia.
Usata da Nicosia, probabilmente, per parlare con i boss o comunque per scopi diversi da quelli che dichiarava. Stigmatizzata dall’opinione pubblica perché una stupida che si è fatta utilizzare, una che se l’è andata a cercare. «Molti colleghi mi hanno offerto solidarietà dicendomi “sarebbe potuto capitare anche a me”. Se sono stata stupida allora sono l’ultimo anello di una lunga catena di sciocchi e ingenui: i Radicali, i precedenti colleghi con cui questo signore ha avuto rapporti, l’Università di Palermo, i giornali, le tv, tanta gente prima di me si è fidata».
A Palermo la giustizia farà il suo corso. A Montecitorio, invece, nulla è cambiato. Il caso Nicosia ha aperto uno squarcio sulla vulnerabilità del Parlamento italiano: gli eletti non possono chiedere il certificato dei carichi pendenti, nessuno lo fa nemmeno a livello informale. Sarebbe stato il caso di modificare le regole: la Camera e il Senato qualche diritto di controllare chi sono le persone a cui i parlamentari danno fiducia ce l’hanno. A tutela dei parlamentari stessi. E dello Stato.
red.pol.

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