La radioterapia d’eccellenza mi ha salvato la vita
Inorridisco al pensiero che i medici debbano limitare l’utilizzo delle cosiddette schermature, come chiedono oggi i burocrati della sanità. Se lo avessero fatto, io non sarei viva e non avrei messo al mondo due splendidi bambini. I medici devono poter fare tutto quello che possono per il bene del paziente: è un diritto costituzionalmente garantito poter ricevere le migliori cure possibili.
Voglio raccontarvi la mia storia.
Dodici anni fa sono stata una paziente oncologica.
Una delle tante purtroppo, ma in grembo portavo mio figlio Samuele.
Ero incinta di sei mesi, una gravidanza bellissima, ero forte, ero in carne, ero felice.
Un giorno mi fecero notare uno strano gonfiore sul collo.
Da lì il declino: ecografia, endoscopia, tubi, aghi. C’è qualcosa nel rinofaringe, mi dissero. Prelievo di tessuto, esame istologico.
«Signora, mi rendo conto della dolce attesa ma glielo devo dire: lei ha un carcinoma nel rinofaringe. Il gonfiore al collo, un linfonodo invaso da metastasi».
In mezz’ora mi è passata la vita davanti.
Qualcuno parlava di mortalità all’80%, il restante 20 era pochino, dovevo dividerlo per due: 10 per me e 10 per Samuele.
I miei cari distrutti, gli amici non avevano più parole.
Io ne avevo ancora tante, non potevo morire, non dovevo.
Partiamo, andiamo dal miglior otorino-oncologo. All’epoca si trovava a Varese, ospedale di Circolo, il professor Castelnuovo, un luminare in materia.
«Signora confermiamo la diagnosi, ma nel suo caso è difficile sapere dove siano arrivate le metastasi. Per fare una tac… Beh, sarebbe il caso di interrompere la gravidanza… se è arrivato ai polmoni… non so se…»
«Ok, si fermi dottore. Se è arrivato ai polmoni ho poche speranze. A questo punto mio figlio deve nascere. Lui vivrà anche senza di me, non osate parlarmi di aborto. Questa è la mia decisione!». Avevo solo 29 anni ma anche tanto coraggio.
Feci tacere tutti. Mi trovavo davanti ad una commissione formata da sei o sette medici, non ricordo.
«Vi prego solo di farmi sapere dove posso provare a curarmi. Intanto do alla luce mio figlio, poi se non sarà troppo tardi farò il possibile per crescerlo!».
Torno a casa, nella mia Campobasso, con la sola certezza di avere un tumore che dal rinofaringe era già sceso ai linfonodi del collo. Null’altro.
Non ero spaventata per me, solo per mio figlio.
Mi sentivo forte nonostante tutto, la ragione prevalse sul sentimento. Dovevo restare lucida.
Dopo qualche giorno mi chiamarono da Varese.
Dissero: «Lo sa che proprio nella sua città esiste un’ottima radioterapia? Parliamo della Cattolica (Gemelli Molise), macchinari di ultima generazione. I medici sono eccezionali, abbiamo già parlato con loro, possono curarla».
Una flebile fiammella si era riaccesa nel mio cuore. Un centro pazzesco come quello di Varese con medici ad alto livello, strumentazione all’avanguardia, aveva individuato nella mia città il centro perfetto dove potevo curarmi.
L’alternativa era quella di trasferirmi in una città sconosciuta, lontano dalla mia famiglia, da sola, con un figlio appena nato. Mio marito doveva lavorare. Avevo solo 29 (caxxo) di anni.
Il 7 aprile 2011, 34 settimane di gestazione, nasce Samuele. Bellissimo, sano. Prematuro ma forte, portato via da me troppo presto. Ma questo era il prezzo da pagare in cambio delle nostre vite.
I giorni in terapia intensiva neonatale furono lunghi ma necessari. Intanto io mi dirigevo al fronte, in prima linea, dovevo vincere quella battaglia.
L’8 aprile la prima Tac. Il taglio cesareo faceva male, malissimo. Lo sento ancora quel dolore.
Referto: il tumore si era fermato ai linfonodi del collo, forse ce la potevo fare. E pensare che se fossi stata un pizzico più egoista avrei ucciso mio figlio per un dubbio. Lui era vivo e forse lo sarei stata anche io, ma ancora non lo sapevo.
Passano due settimane. Inizio il primo ciclo di chemio. L’infusione attraversava il mio corpo tramite un cateterino arterioso, era sul mio petto, la cicatrice è ancora evidente. Cadono le prime ciocche di capelli. Fa nulla, ricresceranno. La nausea, la stanchezza. Avevo anche un figlio da godere il più possibile.
Passano i mesi. I cicli di chemio ogni 28 giorni. E che Dio benedica gli angeli dell’Oncologia, il dottor Giglio, Lina, Rosaria, Roberta e Carla, mi volevano bene, assai. Ero giovane, una giovane neomamma. Non era giusto, del resto non è giusto per nessuno.
Arriva il momento della radioterapia.
Ricordo il dottor Francesco Deodato, attuale primario della Radioterapia del Gemelli Molise, alla prima visita, mi spiegò tutto l’iter da seguire. Mi dava sicurezza, sapeva il fatto suo. Sentivo che la mia vita era nelle sue mani, ne vedeva di ogni, eppure avevo la sensazione che la mia storia gli stava a cuore, forse tutte le storie lo erano ma sembrava dispiaciuto per me.
Avevo solo 30 anni, compiuti da qualche settimana, non ero più in carne, sposata da un anno e il mio primo figlio a casa senza di me.
Trenta sedute di radio. Come per dire: una per ogni anno della mia vita. Questo era il protocollo da seguire.
Prima di iniziare con il “bombardamento” dovevamo fare le cose per bene, non potevano rischiare di compromettere altri organi, tessuti. La radioterapia è forte, fortissima, parliamo di radiazioni ad elevata energia, se fatta bene guarisce, se fatta male distrugge.
Venne definito il bersaglio, cioè la posizione del tumore.
Presero il calco della mia testa, fino al collo. Venne creata una maschera su misura, serviva per tenermi completamente immobile durante le sedute.
Non so se ricordo tutti i passaggi, ma ricordo alla perfezione quando mi parlarono delle schermature. Erano importantissime. Mi spiegarono che all’interno del macchinario venivano inserite delle “fascette”, forse si chiamavano così, non so. Queste permettevano ai raggi di dirigersi solo verso la parte malata in modo da salvare le parti sane. Ovviamente dovevano essere posizionate alla perfezione, caso per caso.
Di tumori ce ne sono tanti, purtroppo, ad ognuno il suo. E in un certo senso tutte queste accortezze ti fanno sentire al sicuro.
Ricordo la cordialità, la dolcezza, l’accoglienza, l’empatia, la puntualità, la familiarità, l’ascolto che ogni giorno trovavo nel reparto di Radioterapia del Gemelli Molise.
Oggi ho 42 anni, sono mamma di due splendidi figli.
Samuele adesso ha quasi 12 anni, Noemi ne ha sei.
Ma dopo 12 anni i ricordi di quei momenti mi assalgono come una valanga.
Pochi giorni fa sento dire in giro che la radioterapia rischia di chiudere le porte.
Mi informo..
Qualcuno ha deciso che le cose non devono più andare così, bisogna cambiare. Prima o poi tutti dobbiamo morire, non ha senso essere precisi e puntuali nel curare le persone. Ci vogliono le autorizzazioni, inutile spendere soldi per le schermature. Ne scegliamo qualcuna (a tipo basic) e le utilizziamo per tutti i tipi di tumore.
Penso: «non può essere un medico a volerlo, al massimo può fare il ragioniere perché in questo caso parliamo di soldi non più di vite».
La rabbia fa capolino dentro di me.
Io sono viva grazie alle cure ricevute in quel reparto. Ho potuto crescere mio figlio con l’aiuto dei miei cari perché ho potuto curarmi nella mia città.
Come può un “Decreto” annullare tutto questo? Privare un onesto cittadino che paga tutto, anche l’aria che respira, privarsi di un diritto così importante, lo stesso diritto che “qualcuno” crede di poter calpestare come fosse niente.
L’articolo 32 della Costituzione recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Non sono un avvocato, sono una mamma, una moglie ma prima di tutto una donna che ha lottato e vinto contro il suo male. Ma senza i giusti mezzi e coloro che li manovrano avrei perso certamente.
Per anni ho tenuto questa storia per me, adesso voglio condividerla con tutti coloro alla quale sta a cuore l’amor proprio.
Un malato di tumore non ha le forze necessarie per schierarsi contro tale ingiustizia ed è proprio questa la vergogna che deve provare chi sta cercando di private queste vite di un diritto fondamentale.
Un presidente della Regione dovrebbe volere il bene dei cittadini.
Con questo Decreto infligge una severa condanna ai malati oncologici. E forse in tanti non lo sanno.
È una condanna morale per tutti, una sconfitta preannunciata in partenza.
Infine dico grazie a tutto lo staff del reparto di Radioterapia del Gemelli Molise, al dottor Francesco Deodato, agli infermieri, al personale socio-sanitario e fino all’ultimo grado esistente in struttura.
Piera Tirabasso

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