Dirige il dipartimento Servizi Area Vasta 2 dell’azienda sanitaria unica regionale delle Marche, una delle regioni più colpite dal Covid-19. All’esperienza manageriale, Roberto Grinta affianca la formazione in Farmacia: ha guardato quindi alla gestione dell’emergenza con una competenza multidisciplinare e ampia. Con la stessa prospettiva pensa alla fase 2, che stiamo vivendo. E di cui ha parlato anche alla School of management dell’Università Lum qualche giorno fa.

 

Il manager marchigiano era fra gli idonei a dg Asrem nel 2019 e col Molise ha mantenuto un buon rapporto, fatto di interesse e curiosità, di voglia di scambiare esperienze, conoscenze e pratiche acquisite sul campo e con l’osservazione.

Dottor Grinta, dopo fase 1 dell’epidemia da coronavirus, ora ne viviamo una forse ancora più impegnativa. Torniamo gradualmente alla normalità ma con la consapevolezza che il virus e la malattia ancora circolano.

«La fase 1 ha visto in prima linea tutti i professionisti, clinici, infermieri, operatori sanitari: hanno svolto un ruolo in team fondamentale per risolvere la grave crisi epidemica da coronavirus che poi è divenuta pandemica. Sono state trasformate le unità operative in reparti Covid, con percorsi preferenziali e ben individuati da specifici colori o insegne. Sono aumentati i posti letto in terapia intensiva e si è cercato di fornire nel più breve tempo possibili i sistemi di protezione a tutti gli operatori. Il distanziamento sociale è stato determinante per ridurre l’indice di contagio, forse uno strumento indispensabile quando un sistema sanitario è privo di un vaccino durante una fase pandemica».

Sono aumentate anche le conoscenze della comunità scientifica rispetto al paziente che ha avuto necessità di ospedalizzazione, vero?

«Esattamente. A grandi linee, il paziente critico non intubabile per età e comorbidità è stato trattato con ventiloterapia gentile, trattamento farmacologico e ha avuto una degenza media di 16-18 giorni. Il paziente con necessità di cure a intensità ordinaria, invece. ha usufruito di  trattamento con ossigenoterapia, terapia farmacologica e ha avuto una degenza di dieci giorni. Non esiste in realtà consenso unanime sul fatto che trattare subito il paziente sia l’arma migliore, ma apparentemente si è visto un miglioramento nel decorso clinico dei pazienti trattati precocemente. L’ossigenoterapia poi è cruciale: ad alto flusso o con ventilazione non invasiva e pronazione da somministrare in tutti i pazienti con scambi gassosi scarsi ed intubazione orotracheale ai primi segni di deterioramento clinico della ventilazione».

Soprattutto al Nord, ma anche in altre zone d’Italia sono stati molti i casi finiti in terapia intensiva.

«Anche questo è un punto dibattuto: quando un paziente deve andare in terapia intensiva. Sicuramente quando ci sono segni di deterioramento degli scambi gassosi ed esaurimento dei muscoli respiratori. Determinante, direi, il ruolo della semi intensiva respiratoria: è l’unico setting in cui può essere effettuata la ventilazione non invasiva. Dall’8 aprile, comunque, non si sono più osservate forme severe di polmoniti».

Passiamo ora alla fase 2: quali strumenti e meccanismi operativi possono essere messi in atto?

«Intanto, è indispensabile riprendere le attività sia chirurgiche che ambulatoriali. È importante riattivare tutti i percorsi già intrapresi, quindi gli indicatori di esito, i processi individuati dal Piano nazionale esiti e i modelli di riorganizzazione del dm 70/2015 e riattivare tutte le reti cliniche: cardiologica, ictus, trauma, emergenza urgenza. Infine ripartire con gli screening, fondamentali nel percorso di prevenzione».

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