Michele Mancini, 73 anni, morto di Covid al Cardarelli. Quanto raccontato dal figlio Francesco alla collega Monica Vignale, direttrice di Primomunero.it, è raccapricciante, rasenta l’incredibile e innesca interrogativi a cui la direzione sanitaria dell’ospedale deve fornire risposte certe e, per quanto possibile, rassicuranti.
L’intervista, che in pochi minuti ha totalizzato migliaia di condivisioni, non è passata inosservata. Il deputato Antonio Federico dei 5 stelle ha fatto sapere ieri sera che sul caso sta preparando una interrogazione parlamentare urgente da sottoporre al ministro Speranza.
Francesco Mancini racconta a Primonumero.it che il padre si sentiva «abbandonato, che quando chiamava non arrivava nessuno, che veniva lavato poco e in maniera superficiale, che nessuno si preoccupava di sapere come stesse e di fargli domande. Mi riferiva che trascorrevano giornate intere senza che il medico lo visitasse proprio. I miei dubbi sono aumentati in seguito a una telefonata del primario: mi ha detto che un uomo di 83 anni che dopo 15 giorni di ricovero non aveva avuto nessun miglioramento era spacciato, che la situazione era gravissima. Ma mi sono reso conto che aveva sbagliato paziente, perché mio padre ha 73 anni, non 83, ed stato ricoverato 10 giorni prima, non 15».
Francesco ha quindi provato a parlare con un altro medico. Ma non è stato semplice, «il più delle volte non rispondeva nessuno. Alla fine sono riuscito a parlare telefonicamente con un dottore del reparto che mi ha confermato la gravità della patologia, ma mi ha anche detto che papà avrebbe potuto benissimo farcela, definendo le sue condizioni delicate ma non gravissime, aggiungendo anzi che non era fra i pazienti considerati a maggiore rischio».
A distanza di poche ore Michele è morto. La famiglia è stata avvisata intorno alle 9 del 12 novembre. Alle 7.29 dello stesso giorno l’ultimo accesso di Michele su whatsapp.
«Era lucido – ancora il figlio a Primonumero -, ha parlato con me via chat e ha parlato al telefono con un suo amico implorandolo di portarlo via, di fare qualcosa per toglierlo da quel posto. Un’ora e mezza dopo però ha chiamato un medico per dire che non c’era più nulla da fare. Ero incredulo, sconvolto, ho voluto sapere che cosa fosse successo e il primario del reparto ha chiamato, sempre nel corso della mattina, dicendomi che tramite telecamera di monitoraggio avevano visto che la mascherina dell’ossigeno era scivolata dal volto e non hanno fatto in tempo a salvarlo».
L’aspetto più inquietante del racconto di Francesco è questo: «Mi ha colpito molto quello che il medico mi ha detto al telefono confermando tutti i miei dubbi sulla gestione del paziente. Ha ammesso che i medici sono soltanto cinque, che non bastano a dare le giuste cure e il giusto supporto a un numero così elevato di degenti, ha ribadito che loro in tempi non sospetti più volte hanno chiesto di potenziare il reparto, ma che questo gli è stato negato».
I numeri della seconda ondata sono di gran lunga superiori a quelli della prima. In prospettiva dell’annunciata e probabile terza fase del Covid, pensare di proseguire affermando che «va tutto bene» non sarebbe un errore di calcolo o una mancata previsione ma un’ostinazione a non voler ammettere che forse la sanità molisana è stata negli anni talmente indebolita che oggi ha bisogno di un sostegno. Cinque medici non possono curare 60 pazienti. È come voler tappare la falla di una diga con il nastro adesivo.
luca colella

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