Antonio Picariello

Non ho ancora visitato la mostra. Meglio dovrei dire non ancora visito l’allestimento perché le immagini presentate le ho incontrate in privato offerte con dialogo e espressività di meraviglia, di meravigliosa meraviglia, ricamando l’intensità magica del poeta Giovan Battista Marino, emanata con fermezza e convinzione, con tenacia eroica, dall’ingegnere ritrovatore del senso della storia fotografica nostrana, Flavio Brunetti. Mettiamola così. Una mostra, un evento, una presentazione, hanno di solito funzione informativa e “qualcos’altro”. E appunto di questo qualcos’altro che mi interessa parlare. Quando sono ben “congeniate” le mostre, gli eventi e le presentazioni, le chiamiamo, noi umani civilizzati, mostre d’arte. Sono mostre d’arte gli eventi capaci di raggiungere un grado di professionalità tale da far straboccare oltre il limite della quantità della rappresentazione, l’essenza che non ha nome e che attraverso una sensazione semantica di opportunismo occidentale si ha l’abitudine di notificare con il termine qualità. Bel termine amato per induzione intorno agli anni settanta dai lettori di Robert Pirsig, il guru impazzito che armeggia con la scrittura sciamanica degli indiani d’America e la trasforma nel titolo de “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” condizionando un esercito di liberi pacifisti che sognavano un’idea post-atomica del mondo rivelatasi poi nella contemporaneità del terzo millennio traditrice e sconsolante. Ma già il titolo diventa un’ idea di quel mondo. Se per Pirsig lo Zen e la motocicletta si accoppiano fuori dal laboratorio di genetica sperimentale, per Brunetti il titolo, da buon ingegnere, lo sceglie già confezionato dalle scatole delle antiche lastre fotografiche al bromuro d’argento. Parole magiche: Bromuro d’argento. Appare la qualità sotto forma di veste alchemica. Il senso sciamanico dell’antropologia molisana si rivitalizza nei fantasmi ritrovati in due casse gettate tra i ciarpami di due trovarobe. La Prima raccomandazione che anticipa qualunque gesto incauto possa compiere l’archeologo dei sogni perduti è incisa sul coperchio: “Non aprire che all’oscuro”. Ma l’ingegnere è anche poeta, musico, teatrante, fotografo e storico cresciuto nella tribù degli ingegneri che conoscevano la bellezza ambientale, i sacerdoti della progettualità che lavoravano la pietra fatta di luce e la visione organica della vita naturale maritata all’inorganico artificiale nel rispetto delle dosi e della metrica che nutrono con devozione la vita collettiva. luigi Cosenza aveva intuito il potenziale magico eletto nel suo allievo assistente e infatti tra i fantasmi liberati dall’oblio Flavio Brunetti trova l’immagine della propria madre. “Qual è la differenza fra chi viaggia in motocicletta sapendo come la moto funziona e chi non lo sa? In che misura ci si deve occupare della manutenzione della propria motocicletta? Mentre guarda smaglianti prati blu di fiori di lino, nella mente del narratore si formula una risposta: «Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore». Questo pensiero è la minuscola leva che servirà a sollevare altre domande subito incombenti: da che cosa nasce la tecnologia, perché provoca odio, perché è illusorio sfuggirle? Che cos’è la Qualità? Perché non possiamo vivere senza di essa?” . Eccola la qualità appare sotto forma di lastre fotografiche che segna la storia di un paese Casacalenda che ha in virtù archetipa la vocazione per l’immagine fotografica iniziata dal fotografo Mastrosanti, fulminando il XX secolo molisano con la passione e la grazia che raccontano gli emiliani e i romagnoli con la cinematografia della memoria o con la poesia dell’evocazione per il valore di una collettività silenziosa che non ha bisogno di altro che specchiarsi nei gesti, nei costumi, negli sguardi nei riti e nella pelle fin quando si raggiunge la sensazione sciamanica di ritrovare il proprio sangue negli sguardi di quelle immagini che dominano come totem risvegliati sulle nostre volutamente dimenticate origini. “La società si adopera per far rinsavire la Fotografia, per temperare la follia che minaccia di esplodere in faccia a chi la guarda”. Strana coincidenza di titoli rovesciati tra Flavio Brunetta e Roland Barthes. Il primo testimonia nel 2016 con queste parole l’evento d’arte e di qualità raggiunta in “Non aprire che all’oscuro”. “ Quelle mille e cinquecento lastre documentano un Molise ancestrale quasi primitivo e ciascuna rappresenta una condizione esistenziale che nell’insieme si fa documentazione, storia collettiva e ‘stoffa del sogno’ delle generazioni dei nostri avi – E in quel mondo, che solo apparentemente sia passato e più non esista, la fotografia assume un potere divino, magico, sacrale, quello di ridare la vita, in una sorta di metempsicosi, alla bellezza e alla grazia”. Il secondo con il titolo “La camera chiara” ci fa riflettere con devozione su tre elementi fondamentali dell’arte fotografica. L’operator ovvero l’operatore, colui che fa la foto. Lo spectator ossia il fruitore, lo spettatore. Lo spectrum vale a dire il soggetto immortalato. Ed ecco che ritorna lo Zen : Lo studium è l’aspetto razionale e si manifesta quando il fruitore si pone delle domande sulle informazioni che la foto gli fornisce (costumi, usi, aspetti). Il punctum, è l’aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente colpito da un dettaglio particolare della foto.La camera chiara è un’indagine sacra sul rapporto tra realtà e immagine, comunicazione e rappresentazione fotografica, un testo che ci apre le porte di altri mondi che forse abbiamo dimenticato. Quando questi elementi diventano interpretazione stilistica l’arte di Marisa Vecchiarelli diventa l’incanto ordito tra i titoli e la letteratura francoitaliana prende corpo spirito e anima. Non aprire che allo scuro ci riordina la coscienza, ci offre la nostra magica camera chiara, il nostro Zen e forse, credo sia veramente così, forse ci offre la nostra anima dimenticata nelle casse di un trovarobe lasciata tra i cumuli di oggetti che respirano nei sottofondi dei magazzini l’aria e l’educazione alla vita lasciataci in eredità dai fantasmi che girano adesso sulle pareti della mostra. Mettiamola così. Una mostra, un evento, una presentazione, hanno di solito funzione informativa e “qualcos’altro”. Qualcos’altro qui diventa qualcosa che capiscono bene sia L’Occidente che L’Oriente. Diventa ARTE. Magnifica Arte per i nostri sensi e la nostra addormentata coscienza collettiva.

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.