C’è chi la racconta come la sconfitta della minoranza. Ora che Bersani e Letta sono minoritari pure nello spazio che, nel Pd, si contrappone a Renzi. Loro, i ribelli, sono invece convinti che adesso se la giocano davvero. “Io sono impegnato a costruire un’alternativa a Renzi nel Pd, Pd che è casa mia. E se non marchiamo la differenza in un passaggio come questo – perché la legge elettorale è di fatto una norma costituzionale – è complicato definirsi minoranza”. Sfuma la differenza con Renzi, ragiona Danilo Leva dopo la conta sul voto di fiducia chiesto dal premier sull’Italicum, è complicato dire di essere un’altra cosa.

È lui uno dei 38 ribelli. Il parlamentare molisano non ha partecipato al voto di fiducia sull’Italicum. Come Bersani, Letta, Bindi, Speranza, Epifani. La decisione l’hanno maturata nella notte, nell’assemblea drammatica in cui il grosso del gruppo di Area riformista s’è sfilato. Non mancano i veleni in Transatlantico, le accuse a denti stretti: stanno facendo le liste. Leva lo anticipa martedì alle agenzie e lo ribadisce mercoledì dopo che tutto è compiuto: “Ritengo sia un errore enorme aver posto la fiducia sulla legge elettorale. Uno strappo alla normale dialettica di una repubblica parlamentare. Il fatto che solo due volte prima d’ora – con la legge Acerbo agli albori del fascismo e con la legge truffa – sia stata scelta la stessa strada la dice tutta”. Non di sfiducia al governo si tratta, evidenzia, ma di dissenso verso l’atteggiamento sulla legge elettorale. “L’aria di dissenso è molto forte, si è esplicitata con alcuni che non hanno partecipato al voto mentre altri non se la sono sentita. Io rispetto tutti – aggiunge Leva – ma in un passaggio come questo credo che la minoranza debba caratterizzare il suo profilo di autonomia”. Non è stato facile, assicura, “un gesto estremo” per leader come Bersani e Letta, “sofferto anche per me”. Che succede adesso? “Il segretario deve farsi carico di quel che è avvenuto. L’unità del partito è un valore aggiunto, non va vissuta con fastidio. Il tema è come si sta in un partito. A colpi di maggioranza o chi fa il segretario, e io l’ho fatto, invece deve rappresentare tutti? Il partito non è un consiglio comunale, non ci deve essere uno che comanda”. Chiude così e non senza riferimenti al Molise, evidentemente.

Se il segretario rappresenta tutti – pur eletto da un congresso, dalle primarie e quindi da una parte – a maggior ragione un capogruppo. Laura Venittelli, renziana doc, racconta di come non sia stata presa bene la scelta di Speranza di lasciare. Vuol dire che allora era capogruppo dei bersaniani. Lei ribalta la prospettiva. Il voto di fiducia era un referendum su Renzi e il suo governo. Sono stati gli irriducibili a volerlo. “Perché non si comprende altrimenti come si possa dire no ad una legge assai migliorata rispetto alla prima stesura che abbiamo votato per spirito di partito. Ha ragione Renzi quando dice: l’80% delle loro proposte di modifica sono state accolte. E allora cosa si vuole, invertire la democrazia? Che sia la minoranza a dettare la linea? Perciò dico che il no della minoranza oggi è un no a prescindere”. Non affonda il coltello, Venittelli. Prudente. “Si va avanti”. In linea con Renzi che ha solo twittato: “Grazie a tutti, è la volta buona”. Guerini assicura che non ci saranno conseguenze. La ministra Boschi minimizza: numeri (352 sì e 207 no) in linea con le altre fiducie. C’è lo scoglio del Senato, dove i numeri sono altri. E basta che qualche esponente della minoranza passi dalla non partecipazione al voto ad un no secco in Aula per mettere la parola fine alla legislatura. “Il primo a non volere le urne oggi è Renzi”, dicono i suoi. La ripresa ancora non si vede, si intravede solo. Le riforme non sono in cascina. Troppo poco per presentarsi agli italiani e chiedere fiducia per quel che si è dimostrato.

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.