Un documento inedito che riemerge a poche settimane di distanza dall’intitolazione del viadotto Verrino a Remo Sammartino.
Si tratta del testamento spirituale concesso dai familiari del senatore Dc (il parlamentare più longevo della storia del Molise, ndr) a Primo Piano Molise. Il documento, le cui parole restano attuali e aprono a profondi spunti di riflessione, risale al mese di maggio del 2003, ovvero tre anni prima della morte dell’ex sindaco di Agnone (15 giugno 2006) e fondatore della Dc in Molise.
«Si sta per concludere la mia vicenda terrena. Ed io sento di dover raccogliere il mio pensiero ed elevarlo fino alla sapienza di Dio; quel Dio che tutto muove, amando: riaffermare davanti al popolo il mio Credo, il Credo che cominciai a professare in questa chiesa col santo Battesimo, a confermarlo, sempre in questa chiesa, con la santa Eucaristia e la Cresima, in questa chiesa dove ebbi la sorte di portare all’altare la creatura che avevo scelto per farne la madre dei miei figli. Tutto dunque in questa chiesa dove, bambino, accompagnavo le mie nonne, che ricordo in ginocchio sul nudo pavimento, come lampade ardenti davanti a Gesù Sacramentato e davanti al prezioso altare di Maria Santissima del Rosario. Qui rivedo, con l’occhio della mente, mia madre, che la Grande Guerra aveva lasciato vedova e madre di quattro figli, tutti in tenerissima età. Nella sua vita, lunga fino alla soglia dei cento anni, mai una parola di imprecazione contro la patria e, tanto meno, contro il Signore Iddio. In ogni momento, in ogni circostanza triste, la parola finale delle sue labbra dolenti era questa: “Sia fatta la volontà di Dio”. Anche quando, per lei e per noi tutti, venne l’ora amarissima del destino crudele che era toccato al figlio Sergio – il più gagliardo dei figli – della cui sorte non si seppe più nulla nel mezzo della Seconda Guerra Mondiale. La sua speranza di rivederlo fu lunga quarant’anni, ma mai la sua bocca ebbe parole che ne tradissero l’intima angoscia. Quel figlio aveva sacrificato la sua forte giovinezza tra gli alpini della eroica divisione Julia, in Russia, al servizio della patria. A chi le piangeva intorno, mia madre aveva la forza di rispondere con parole di fede. Solo una volta, soli lei ed io, dopo un mio viaggio di indagine durato più giorni, mi sentii domandare se le portavo notizie di quel figlio. Alla mia risposta, fatta di silenzio, seguì, quasi sottovoce, la domanda a Dio: “Ma che cosa ha voluto da me il Signore?” Quella domanda mi riportò alle parole di Gesù sulla croce: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Debbo a questa madre l’aver percorso la via degli studi. La scelta, difficile e di sacrificio, cadde sulla scuola dei Salesiani di Don Bosco, l’Educatore santo. Quella scuola durò gli otto anni del ginnasio e del liceo.
Da essa trassi quella che mi parve essere la vocazione della mia vita: l’insegnamento. Infatti, gli anni che vissi insegnando nella nostra Scuola di Avviamento Professionale (prima che la guerra, col suo quadro di terribile miseria, fisica e morale, imponesse alla mia generazione l’impegno a ricostruire le cose e le coscienze) sono stati sempre vivi e dolci nella mia mente e nel mio cuore. Dopo quegli anni, lasciata la scuola, ma col pianto nel cuore, mi imbattei nel clima rovente della restaurazione della comunità civile: in una parola, nella politica. E in essa trovai la naturale conseguenza dell’impegno sociale e culturale, cui mi avevano formato i miei Educatori.
Eravamo poveri. La società civile vagava senza speranza. L’ossatura costituzionale dello Stato era in frantumi. Ma proprio quando sembrava che nulla vi fosse da sperare, restava la possibilità di amore verso i disastrati da tanto flagello, i diseredati, i senza casa, i poveri. In quel clima, in mezzo al popolo che aveva perduto tutto, osammo gridare l’esortazione a credere nella resurrezione della patria. Vissi l’entusiasmo di quegli anni con la consapevolezza di dover trasmettere alle giovani generazioni il dovere di concorrere alla elaborazione di una nuova cultura della politica, strumento di elevazione dell’uomo e dello Stato. Mi ritrovai nelle piazze gremite di folla. Quante volte, in quegli anni difficili, la coscienza mi proclamò servo, sì, ma inadeguato a rispondere alle istanze generali della gente! Sapevamo bene che non camminavamo al passo che sarebbe stato necessario. Sapevamo quale enorme residuo ci sarebbe stato tra la società che avremmo a poco a poco costruito e la società ideale alla quale tendiamo. Ma come potrei dimenticare la fiducia della gente, che mi faceva sentire meno inutile, stanca e vuota la mia vita in mezzo a tanto dolore! Mortificato e triste, in quel mare di pianto, temetti tante volte di vacillare. Ma i miei Educatori mi avevano insegnato che non ci si deve arrendere mai, neanche quando ci troviamo sotto il peso della stanchezza e del dubbio. È vero: quando sembra che non ci sia più nulla da sperare resta la possibilità di amare. Ma, quanto siamo disperatamente pochi a voler bene!
Ma furono esse, le popolazioni delle nostre montagne, della pianura, del mare, spoglie di tutto, ma credenti nella nostra volontà di restituire dignità ed assicurare la crescita civile, che mi diedero sempre la forza di perseverare insieme sul lungo cammino.
Lungo questo cammino il Signore Iddio mi fece incontrare alcune nobili anime. Ne ho carissimi l’immagine, la voce, i luoghi. Lasciate ch’io ne citi uno, come se ne gridassi il nome: Alcide De Gasperi. Modesto ma forte e sicuro della sua missione, intrepidamente fedele agli ideali di uomo e di cristiano, capace di ricercare non la vanagloria, né lo stile chiassoso, ma il valore del servizio cristianamente reso. Fu lui che ci guidò per mano, negli anni della ricostruzione della patria, e ci insegnò che il popolo va servito, prima di tutto, in perfetta umiltà di cuore.
Volle poi il Signore Iddio che toccasse a me l’onore immenso di farmi vicino al grande pontefice Paolo VI, quando, più volte, in rappresentanza del Governo, lo accompagnai e lo ricevetti all’aeroporto di Fiumicino, per i Suoi viaggi intercontinentali. Sono ancora nelle mie orecchie e nel mio cuore le parole buone di quegli incontri. Paolo VI aveva definito la politica “arte sublime del servire”.
È stata fortuna per me incontrare, nel campo così vasto del pubblico mandato, persone la cui spiritualità si esprimeva in impegno costante per la libertà, la giustizia sociale, la pace; e, quindi, in impegno a fare della politica forma e strumento di servizio di Dio. Su questa linea non avrei potuto non avvertire, da un lato, la grandezza dei valori cristiani e, dall’altro, i miei limiti, i limiti miei e di tutti coloro che devono farsene portatori nella Storia.
Qui, dunque – dopo aver elevato a Dio il ringraziamento umile e devoto per la missione alla quale mi aveva vocato nell’ordinamento civile della patria nostra – da questa chiesa del mio amatissimo paese, sento il dovere di lasciare il mio grazie estremo ed il mio augurio profondo, sincero ed affettuoso, ai miei concittadini e dalle popolazioni di ogni contrada della nostra regione, per il bene che mi hanno voluto sempre, per la fiducia che mi hanno dato ripetutamente, in ognuna delle date solenni della mia vicenda terrena.
Richiamo a me i volti cari di quanti mi hanno circondato del loro affetto. E temerei di essere egoista se questo richiamo non servisse per esprimere la mia gratitudine, per dire quanto io senta, in tutta la sua bontà e grandezza, il tesoro dell’amicizia. Come in ogni ruolo della vita, anche nella politica molta parte dipende dal proprio carattere. Io sono stato – lo confesso – un impulsivo. Sì, ma l’impulsività – quale spinta ad agire istintiva ed immediata, che non ammette tregue, che non tollera pigrizie, che non giustifica negligenze e pusillanimità – ha dato spesso esito al mio agire. Ne sono state testimoni le aule solenni delle due assemblee Legislative nelle quali ho avuto l’onore di rappresentare il nostro popolo. Quante cose, talora scritte o promesse da passati decenni, hanno visto la luce in grazia di quell’elemento caratteristico e dominante che è stata la mia passionalità! Penso all’Ospedale Civile del mio paese, all’Università del Molise, all’ingresso del Molise sull’Autostrada del Sole, alle fondovalli del Trigno e del Verrino. Chi avrà la pazienza di leggerne la storia, così come l’ho lasciata in vari scritti, potrà ritrovarvi la mia ostinazione cocciuta, contro ogni rassegnazione ironica di chi sorrideva all’utopia. Là sono io.
Nell’espletamento del mio mandato ho sofferto, come ferite cocenti, gli strali dell’ingratitudine. Nell’amarezza ho trovato conforto e luce rileggendo e meditando la pagina evangelica dei dieci lebbrosi. “Ma non erano dieci, quelli che ho risanati?” – domanda Gesù all’unico che, guarito, è tornato indietro a dire grazie.
A quanti d’ogni parte e paese hanno bussato alla mia porta, io dico: siate tutti benedetti, perché non sono stato io ad accogliere le vostre istanze o a risolvere i vostri problemi, ma il Padre nostro che è nei cieli. Amen».
Remo Sammartino

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