Dieci anni di inferno. Dieci anni da quel giorno. Lei, la chiameremo Maria, aspetta due gemelli. Un maschietto e una femminuccia. Ha 34 anni. È alla 30esima settimana, avrà già comprato tutti e due i corredini. Pensieri e desideri, le ansie piacevoli per le nuove vite che porta in grembo. All’improvviso le contrazioni, la corsa al Cardarelli. La paura. La diagnosi è di minaccia di parto prematuro. La mattina successiva le viene praticato un parto cesareo d’urgenza. Il piccolo morirà dopo 15 giorni, la bimba sopravvive ma con gravi lesioni cerebrali. Che le impediranno per sempre un’esistenza normale.

A Maria e suo marito, all’altro figlio della coppia e alla piccola che nonostante tutto si è salvata l’azienda sanitaria regionale deve due milioni di euro in base alla sentenza della Corte d’Appello di Campobasso depositata qualche giorno fa. Il tribunale aveva condannato l’Asrem a risarcire poco più di un milione e 150mila euro, somma già corrisposta e a cui si aggiungono i due milioni, ma “nello stesso tempo – spiega l’avvocato della coppia Enrico Cornelio – attribuiva gran parte del danno al fatto naturale della prematurità dei bambini”. Pagherà la Cattolica Assicurazioni, condannata dai magistrati a tenere indenne l’Asrem. Ma intanto colpisce – nelle settimane decisive per la riorganizzazione della sanità del Molise caratterizzate anche da aspre polemiche dei comitati a difesa degli ospedali – la scure che si abbatte comunque sull’azienda di via Petrella. Un caso di malasanità che fa riflettere. Una storia devastante, perché il dolore di vivere con una figlia gravemente invalida è permanente. E perfino più forte – hanno rilevato i giudici nel verdetto – di quello che i genitori avrebbero subito se la bambina fosse morta. Come purtroppo è accaduto al suo gemellino.

Ma cosa è successo in quelle ore drammatiche fra il 19 e il 20 giugno del 2006, ore in cui la donna fu assistita in Pronto soccorso e poi ricoverata in Ginecologia? A Maria, ha accertato il consulente tecnico del tribunale, non fu stata somministrata adeguata terapia tocolitica (utilizzata per fermare le contrazioni ed impedire dunque gli aborti o i parti prematuri), o meglio l’Asrem ha prodotto delle ‘consegne’ ostetriche ed infermieristiche da cui risulta avviata la terapia ma senza specificità di dosaggio, mentre la terapia corticosteroidea (che serve allo sviluppo polmonare dei feti) non fu somministrata ovvero lo fu con dosaggio e timing insufficienti. Nella cartella clinica ostetrica non c’era alcuna indicazione sulla decisione di sottoporre la giovane donna a cesareo. Né furono eseguiti esami che consentissero di capire se quella del parto prematuro era solo ancora una minaccia o se Maria fosse già in fase di travaglio. Perché ritardare anche di pochi giorni un parto prematuro è un obiettivo da perseguire, sottolineano i magistrati sulla scorta della relazione del medico nominato ctu: il bimbo deve nascere in condizioni non solo di sopravvivere ma anche di non avere conseguenze dal suo essere prematuro e preservando la salute della mamma.

Per questo, la responsabilità che risulta accertata è in capo all’ospedale del capoluogo di regione. Manca la prova, che l’Asrem avrebbe dovuto fornire, che era davvero urgente praticare il cesareo. Su questa base, e valutando in maniera diversa rispetto al primo grado anche i danni subiti dai genitori (danni anche biologici per la sofferenza psichica che è derivata da un trauma fortissimo), dalla gemellina sopravvissuta e dal fratellino, il collegio ha quantificato il risarcimento dovuto in 3,3 milioni, a cui sottrarre un milione e 300mila euro già versato dopo il verdetto del tribunale. Alla mamma e al papà della piccola l’Asrem deve anche 4mila euro all’anno da quando è nata e fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica.

Maria e suo marito chiesero aiuto alla Fondazione ‘Mai Più’ di Venezia. Nella battaglia giudiziaria sono stai assistiti dall’avvocato Cornelio e dal prof Mario Rondinelli. Dopo il primo grado, la Fondazione consigliò loro di proporre ricorso. “La Corte d’Appello di Campobasso ha corretto l’errore del giudice di primo grado riconoscendo che in sede di responsabilità contrattuale se l’ospedale non prova che vi fosse un’effettiva minaccia di parto prematuro – le parole dell’avvocato Cornelio – e quindi la necessità di considerare il parto cesareo anziché somministrare farmaci tocolitici a protezione della gravidanza, si deve ritenere che il parto anticipato non fosse necessario e di conseguenza che il danno sia consistito nell’impedire ai due gemelli un regolare sviluppo nell’utero materno, che avrebbe consentito la sopravvivenza e la salute di entrambi”.

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