Michele Cicora da Londra, ma originario di San Giuliano di Puglia

Oggi, 23 giugno, dovrebbe essere un momento di riflessione. Esattamente 75 anni fa, nel 1946, venne firmato il Protocollo d’Accordo “Uomo-carbone” dall’allora Capo del governo di Unità nazionale Alcide De Gasperi e i rappresentanti del governo belga. I libri di storia non ne parlano ma questa data va ricordata. I politici di tutte le coloriture, specialmente quelli più giovani, dovrebbero documentarsi e capire l’importanza e il significato profondo dell’emigrazione italiana dal 1946 in poi, la quale con le sue rimesse ha permesso all’Italia di rialzarsi dalle ferite e dalle macerie causate dalla Seconda Guerra mondiale. Chi ci governa e/o vuole governarci dovrebbero fare tesoro dei sacrifici e delle sofferenze patiti da quella gente e fare in modo che non ricreino situazioni che costringano la gente ad andare altrove per procurarsi un futuro migliore. Da molisano emigrate, mi duole vedere che Molise si sta spopolando. Si creino infrastrutture e condizioni favorevoli affinché i giovani siano messi nella condizione di fare progredirlo.

All’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, tutti i Paesi europei erano in condizioni economiche precarie. Al Belgio abbisognava manodopera da impiegare nelle miniere di carbone. Fu così lanciata la battaglia del carbone. ma la manodopera locale non era più disponibile a lavorare nel sottosuolo. Pochi belgi erano disposti a fronteggiare le condizioni di lavoro infernali nelle viscere delle miniere, era più conveniente, sicuro e remunerativo lavorare nelle fabbriche. L l’Italia si ritrovava economicamente in ginocchio e con un altissimo numero di disoccupati. Fu così che il Belgio fece ricorso all’approvvigionamento di manodopera a basso costo, specialmente italiana. Le precarie condizioni economiche dell’Italia calzavano a pennello e il governo di coalizione italiano guidato da De Gasperi sponsorizzò fortemente l’emigrazione verso quel Paese. L’Accordo del Carbone stipulato con il Belgio, il quale era tutti gli effetti un vero e proprio baratto uomo-carbone, rappresentava un vantaggio economico immediato, e a breve termine ancora più conveniente del Piano Marshall. Questo perché l’emigrazione di massa verso il Begio in primis, ma anche verso altri Paesi europei colpiti dalla Guerra, avrebbe permesso all’Italia di riprendersi economicamente grazie alle rimesse delle centinaia di migliaia di emigrati, In più, l’invio a “gruppi di duemila minatori alla settimana’ nelle miniere belghe, avrebbe costituito anche un vantaggio energetico per le fabbriche italiane grazie al baratto Uomo-Carbone in base al quale l’Italia avrebbe ricevuto due quintali di carbone al giorno a “prezzo preferenziale” in cambio di ciascun minatore italiano disposto a lavorare nelle miniere belghe. L’accordo prevedeva l’invio di 50.000 operai, ma il numero totale venne abbondantemente superato. Si parla addirittura di una fornitura annuale di carbone di ben oltre due milioni di tonnellate.

Una volta siglato e firmato l’accordo, i paesi e le città italiane, dal Nord al Sud, vennero tappezzati con i famosi Manifesti rosa i quali evidenziavano tutti i vantaggi e i punti positivi.

In apparenza l’Accordo sembrava favorevole. Esso prometteva:

Condizioni di lavoro sicure, parità salariale e di trattamento pensionistico tra i minatori belgi e italiani, alloggi confortevoli, ferie, assegni familiari per le famiglie rimaste in Italia, e possibilità di farsi ricongiungere dalle famiglie. Bisognava però avere al massimo 35, ma ce n’erano anche alcuni che avevano superato quell’età, e disposti a lavorare anche a mille metri di profondità.

I famosi manifesti però nascondevano alcuni aspetti relativi alle condizioni di lavoro.

Per esempio, il contratto era annuale per la durata di 5 anni. Qualora i minatori non rispettassero la durata contrattuale, rischiavano la galera e il rimpatrio. E di questi casi ce ne furono diversi. Inoltre, non potevano cambiare lavoro prima di avere completato il periodo di cinque anni in miniera.

La selezione era abbastanza severa e laboriosa. Bisognava essere giovani e forti, robusti e abituati a lavori duri, specialmente se in miniera o nei campi. Operai con fisici gracili non venivano neanche presi in considerazione per le visite mediche. Bisognava sottoporsi ad almeno tre severissime visite mediche: una nella regione d’origine; un’altra, la più severa ed accurate nei sotterranei della stazione di Milano alla presenza sia di medici italiani che belgi; e l’ultima in Belgio. Una volta superata la visita a Milano venivano messi sulle tradotte e trasportati nelle varie città minerarie. Il viaggio dal posto d’origine alla destinazione finale poteva durare anche 70 ore. Quando partivano da Milano non conoscevano la loro destinazione. Una volta giunti sul suolo Belga venivano fatti scendere nelle varie stazioni senza nessun criterio, se non di numero, come si faceva nei campi di concentramento nel periodo nazista. Alla stazione li aspettava un camion che li portava nei vari alloggi. Gli alloggi nella maggior parte dei casi consistevano in baracche in lamiera usate come già come prigioni durante la Seconda Guerra mondiale dai nazisti. Questo fu il primo impatto e per i nostri emigrati. Questi alloggi non erano affatto confortevoli e mancavano di acqua come le case che avevano lasciato in Italia.

Nessun corso di formazione, soltanto un giro per familiarizzarsi con l’ambiente.

Cominciavano a lavorare già al secondo giorno dal loro arrivo, scendendo subito nelle viscere della terra, spesso in cunicoli alti non più di ottanta centimetri. In questi cunicoli non era rara la presenza di topi, gli amici dei minatori. Essi, infatti, si rivelavano molto utili per minatori in quanto quando sentivano puzza di grisù scappavano e i minatori li seguivano in quanto si dirigevano verso sacche d’aria.

Le miniere erano obsolete e fino al 1956 in alcune miniere i minatori non erano dotati neanche delle maschere anti gas. Le miniere non avevano molte misure di sicurezza perché per le Compagnie minerarie il loro unico scopo era il profitto. A loro interessava sfruttare il più presto possible le reserve di carbone in quegli anni perché le fabbriche si apprestavano ad utilizzare altre fonti d’energia.

Nei primi anni, la vita sociale era molto limitata anche a causa del fatto che non parlavano la lingua del posto. Molti si fecero raggiungere dalle famiglie. Ma ci furono anche tanti che preferirono lasciare le mogli e i figli in Italia, specialmente se avevano diversi figli.

Nella maggior parte dei casi non erano ben visti dagli abitanti del posto e l’integrazione stentò molto a materializzarsi.

Venivano chiamati “Macaroni” e zoticoni. L’atteggiamento dei belgi verso di loro cambiò radicalmente dopo la tragedia di Marcinelle dell’8 agosto 1956 nella quale morirono 262 minatori, di cui 136 italiani e 7 molisani. Quella catastrofe fece capire ai belgi le condizioni disumane in cui hanno lavorato i minatori stranieri e hanno cominciato ad apprezzare il contributo offerto in quegli anni dagli italiani. Nel tempo, molti italiani di seconda e terza generazione hanno ottenuto alte cariche in tutte le sfere della vita belga.

Nella seconda metà del secolo scorso morirono più di 800 minatori italiani. La realtà della vita in miniera era molto dura e cruda. Non c’era scampo. o si usciva morti dalla miniera o si era malati di silicosis per il resto della vita.

 

Michele Cicora

 

 

 

 

 

 

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