Due settimane fa le marinerie italiane si erano riunite a Pescara lanciando un chiaro ultimatum, o il Governo dava seguito alle misure a sostegno del comparto ittico o l’attività di pesca si sarebbe fermata. Così è stato, anzi sarà da questa sera. Queste le principali problematiche: caro gasolio che rende oggi impossibile portare avanti l’attività, mancata cassa integrazione per gli imbarcati, mancato pagamento del fermo biologico 2021, aiuti promessi durante la pandemia per far fronte alla crisi conseguenze, mancata erogazione del credito di imposta: aiuti mai arrivati. Queste le richieste: costo del gasolio massimo di 0,50 centesimi, fermo biologico facoltativo di emergenza, attivazione della cassa integrazione straordinaria e retroattiva dal primo gennaio 2022 per gli imbarcati, blocco dei mutui per un anno per armatori e marittimi. «Se entro 15 giorni dal Governo non dovessero arrivare le risposte chieste, le marinerie procederanno, come detto, allo stop totale e definitivo dell’attività e ai licenziamenti», ultimatum che tuttavia, a giudicare da quello che è emerso ieri, nella sede del mercato ittico di Termoli, dove stavolta hanno fatto capolino marinerie di diverse regioni, non ha prodotto granché e allora le flottiglie resteranno agli ormeggi, almeno per sette giorni. Un nuovo stato di agitazione che riguarderà il medio e basso Adriatico, dalle Marche alla Puglia, passando per Molise e Abruzzo. Oltre 150 operatori, tra armatori e pescatori dell’Adriatico, si sono ritrovati nel porto termolese per discutere il “da farsi”. «A distanza di due settimane dalle richieste inviate al Governo non è accaduto nulla. Non c’è stata alcuna risposta dalla scorsa riunione di Pescara – dichiara Paola Marinucci, presidente dell’associazione armatori del Molise -. Per questo motivo si è deciso un nuovo fermo fino a domenica prossima. Non è uno sciopero ma uno stato di agitazione». Solo nella città di Termoli sono 45 i pescherecci a strascico che non usciranno in mare. «Non possiamo continuare in questo modo – conclude la coordinatrice dell’associazione armatori molisana – qui rischiamo davvero di chiudere tutti». Anche le organizzazioni sindacali nei giorni scorsi avevano lamentato la crisi del settore. «Gli effetti del caro gasolio, nella pesca, continuano a destabilizzare un settore in enorme difficoltà. Le misure contenute del Decreto Energia di marzo avevano dato qualche speranza ai lavoratori imbarcati ed alle imprese. Ad oggi, queste speranze sono svanite perché nulla è arrivato e la situazione sta velocemente precipitando. In questi giorni, molte imprese hanno dichiarato di voler disarmare le imbarcazioni e di voler licenziare i loro dipendenti. Parliamo di 25.000 lavoratori che rimarrebbero senza reddito e senza lavoro. Fai, Flai e Uila Pesca comprendono lo stato di disagio e di difficoltà nel quale si trovano le imprese, causato in gran parte dal consistente incremento del costo del carburante, ma non condividono la soluzione proposta, o comunque minacciata, che va verso un vero e proprio massacro sociale. Fai, Flai e Uila Pesca, inoltre, evidenziano, in una situazione di difficoltà come quella attuale, l’estrema necessità di un ammortizzatore sociale che possa sostenere, in maniera strutturale, il reddito dei lavoratori. Purtroppo, la Cisoa pesca è allo stato attuale una scatola vuota: è, infatti, inutilizzabile per i lavoratori e rappresenta un ulteriore costo per le imprese che da gennaio di quest’anno hanno cominciato a pagare. Chiediamo al Governo, dopo mesi di attesa e forti sollecitazioni, un immediato intervento economico a sostegno del settore e di rendere la Cisoa pesca effettivamente adeguata ed utilizzabile, al fine di garantire la continuità occupazionale, il reddito delle imprese ed evitare così il blocco dell’attività di uno dei comparti essenziali del nostro paese. La pesca, come tutto il nostro agroalimentare, rappresenta uno dei settori strategici per gli obbiettivi di sicurezza alimentare nazionale, ancora più evidente in tempi di pandemia e di guerra, non è accettabile che questo bene collettivo rischi di scomparire, magari favorendo l’ulteriore ingresso di prodotti importati sui nostri mercati e trasformando i pescatori in una specie a rischio d’estinzione».

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