Due giorni di sole e cento di pioggia. È il Molise raccontato da Fred, che ha chiuso gli occhi per sempre in un’alba di nuvole e vento. Lontano da qui ma con il cuore in via Marconi. «Sono io che non me ne sono andato mai, io che non ti ho lasciato mai» sussurrava con la sua voce calda l’ultimo chansonnier della musica italiana – che amava Frank Sinatra e duettava con Toquinho e Vincius de Moraes – quando cantava la sua terra lontana, quando chiudeva gli occhi e tornava nella casa del rione Sant’Antonio. Erano gli anni quaranta, la vita di certo non assomigliava nemmeno un po’ a quella che avrebbe vissuto. «Se di notte mi incontri davanti a Santa Maria, e mi senti cantare qualche vecchia canzone, non pensare che è un sogno perché vivo lontano, non pensare che la colpa è del vino che è buono». E di notte, quella voce profonda e inconfondibile, colonna sonora di amori vissuti e di storie passate, ha incontrato l’eternità. E’ diventata leggenda, immortale. Malato da tempo, non poteva più ascoltare voci e suoni, musiche e melodie. Il grande Fred, lo chansonnier, avvolto in un mondo ovattato e freddo, lontano e diverso da quello al quale – nell’Italia del boom economico, delle lambrette e della voglia di riscatto – aveva dato ritmo e calore, sentimento e spensieratezza. Un dono, il suo talento. Che assieme alla voglia di riuscire, alla caparbietà – segno distintivo di chi nasce e cresce qui – diventano miscela esplosiva. «Di italiani in giro per il mondo ce ne sono tanti – raccontava dal palco del Teatro Savoia esattamente dieci anni fa, a Campobasso per l’inaugurazione della stagione 2009-2010 – ma è difficile essere campobassani e molisani». Un rapporto complicato, sì, forse come tutti quelli che si vivono a distanza, che non si alimentano perché il tempo passa, gli amici vanno via e i ricordi sfumano. E forse è stato così anche per Fred e la sua Campobasso, con le immagini in bianco e nero dei corridoi del Mario Pagano. «A quei tempi era davvero difficile essere promossi ma nonostante tutto ce l’abbiamo fatta» raccontava riferendosi ai suoi compagni di banco. Gaetano Scardocchia e Gino Marotta, molisani lontani come lui. «Conterranei imperfetti» il suo modo garbato di raccontare chi viveva nella terra dove aveva deciso di non esibirsi più. Troppo grande l’affronto subito, che raccontava spesso. Un brutto episodio aveva spezzato quel legame con il Molise testardo e caparbio, capace di dimenticare troppo in fretta. «Ho sempre fatto serate gratuite per la mia terra – spiegava in una intervista rilasciata a Primo Piano Molise nel 2008 -; alcuni anni fa venni a cantare su invito di quello che credevo essere un amico e invece non lo era. Lui stesso mi disse che avrei dovuto chiedere un compenso e domandai 20 milioni. Mentre ero sul palco vedevo questa persona con un microfono in mano, in collegamento con una radio. Disturbava il mio spettacolo: solo a fine esibizione seppi che mi aveva dato contro perché avevo chiesto quella cifra. È stata una cosa bruttissima, ordita per farmi fare una brutta figura. Una circostanza amara che ancora mi porto dentro». L’ultimo concerto nel suo Molise, era il 2000. Poi nove anni di silenzio e quel ritorno, forse immaginato e sperato. Con la complicità del presidente della Provincia Nicola D’Ascanio, l’emozione di sentire l’odore di casa, di respirare ancora una volta l’aria frizzante della montagna, di trovarsi a poche centinaia di metri da via Marconi e dalla chiesa di Santa Maria, dal convitto Mario Pagano. I ricordi che tornano, flashback di una vita: la chitarra regalata dallo zio; quella sera quando, mentre calava la neve, sentì per la prima volta la musica che avrebbe voluto suonare; i calci al pallone e l’amore senza confini per le sette note; il primo complessino e il sogno di diventare famoso. Desideri, inseguiti e afferrati, uno ad uno. E sul palco del Savoia, con gli occhi già spenti ma il cuore che batteva forte, il cammino di una vita percorsa fuori da qui: i successi, le hit cantante nel mondo, i film ai quali regalare le colonne sonore più giuste, le tourneé, le collaborazioni internazionali, l’amore e la vita vissuta a piene mani. La riappacificazione con la sua città, che non lo ha mai dimenticato anche se non glielo ha detto spesso. «Che soddisfazione per noi campobassani quando nei tuoi concerti, nelle apparizioni televisive e in ogni altra occasione, con orgoglio, svelavi le tue origini – gli raccontò l’allora sindaco Gino Di Bartolomeo -. Sono di Campobasso, dicevi. E il nostro cuore scoppiava di gioia». Due giorni di sole e cento di pioggia, diceva Fred, cantando la sua regione, quella città che oggi fa i conti con l’addio. Addio, Alfredo. Chansonnier immortale.

Canzoni senza tempo, colonne sonore indimenticabili

Era il tempo dei 33 e dei 45 giri. Una vita fa, superata da musicassette e cd e poi da Spotify. Ma ieri, su youtube, in cima alla lista degli artisti più ascoltati sulla piattaforma c’era l’amato Fred. Alfredo Buongusto inizia la carriera come orchestrale: nel 1960 entra nel gruppo «I 4 Loris» (composto anche da Loris Boresti, Luciano Bigoni e Nini Mezzet), con cui inizia a cantare come voce solista. Un contratto discografico con la Primary e il debutto nel ’61 con il 45 giri «Madison Italiano/Notte d’amore»cover di Jealous Lover di Charles Williams, canzone inserita nella colonna sonora del film «L’appartamento» di Billy Wilder. Il debutto come solista nel 1962, con il brano «Bella Bellissima» composta per lui da Ghigo Agosti; sul lato B del 45 giri «Doce Doce» che si rivelò per Fred il trampolino di lancio. E poi un lungo elenco di successi, da «Una rotonda sul mare» a «Malaga», da «Spaghetti a Detroit» a «Frida», da «Balliamo» e «Lunedì» per arrivare alla vittoria della kermesse «Un disco per l’estate» con «Prima c’eri tu». Un paio di film musicali nella prima metà degli ani Sessanta e le colonne sonore, circa una trentina per film straordinari come «Il tigre» di Dino Risi, «Malizia» (candidata all’Oscar), «Peccato veniale» di Salvatore Samperi, «Venga a prendere il caffè da noi» e «La cicala» di Alberto Lattuada. Scritta e interpretata da Bongusto la sigla di chiusura di «Quattro colpi per Petrosino» dello sceneggiato «Joe Petrosino» di Daniele D’Anza. Nel 1973 interpreta e incide il brano di Stevie Wonder «Superstition» con lo pseudonimo di Fred Goodtaste, evidente traduzione in inglese del proprio nome. Nel 1985 pubblica «Ammore scombinato», nel 1986 partecipa al Festival di Sanremo con «Cantare» e nell’89 con «Scusa». Nel 1989, pubblica un brano inciso e cantato con Il Giardino dei Semplici, «E fantasme». La sua attività si spinge oltreoceano, in Sudamerica dove si esibisce per l’ultima volta nel 2007. Nel 2005, l’allora premier Berlusconi gli donò di una targa d’argento per i 50 anni di carriera e qualche mese dopo fu insignito dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dell’onorificenza di commendatore, ordine al merito della Repubblica Italiana. L’ultima delle sue apparizioni pubbliche risale al 22 aprile 2013, in occasione del concerto in ricordo di Franco Califano.

 

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