Diventerà una serie televisiva e una serie doc per la prestigiosa casa di produzione Groenlandia di Matteo Rovere, premiato pochi mesi fa come miglior produttore ai David di Donatello, l’ultimo libro dell’isernino Carmine Gazzanni e della scrittrice Flavia Piccinni. Stiamo parlando di “Sarah” (Fandango, pp. 320) che verrà presentato oggi alle 17.30 presso la sala consiliare di Miranda e poi all’Aut Aut Festival con Valentina Fauzia al Palazzo Ducale di Larino (ore 20.00). «Sentiamo – spiega Carmine Gazzanni, che presto ritornerà in video a Linea Verde Life su Rai1 il sabato mattina – una grande responsabilità. Vogliamo restituire una verità complessa come abbiamo provato a fare con il libro, svelando anche le manipolazioni mediatiche e quello che ad Avetrana, oltre le ricostruzioni spesso parziali fornite dai giornali per ovvi motivi, è accaduto».
Tutti pensano di sapere tutto sul caso di Avetrana, in realtà voi raccontate uno scenario completamente inedito nel libro.
«Abbiamo provato, incontrando tutti i protagonisti che c’è stato possibile e leggendo una mole incredibile di documenti, oltre 20mila pagine, a restituire le molteplici verità che compongono questa complessa vicenda. La verità giudiziaria difficilmente corrisponde a quella storica. In questo caso sono tante le ombre che si affacciano sull’ergastolo di Sabrina Misseri e di Cosima Serrano. Stiamo parlando di un fatto di cronaca nera che ha destabilizzato l’Italia intera e che con la complicità adesso dei giornalisti ora degli autori televisivi, ma soprattutto del pubblico, si è ritrovato a diventare il primo reality show dell’orrore mediatico».
Scrivete: «All’inizio, la scomparsa di Sarah Scazzi è una storia qualsiasi. Un trafiletto infossato nelle pagine di cronaca locale. Eppure c’è un momento in cui tutto cambia. La faccia di quella graziosa ragazzina bionda descritta come innocente e remissiva, balza alle cronache nazionali. È in quel preciso istante che Sarah Scazzi diventa più scomparsa degli altri». Cosa è successo?
«Era un fine estate di dieci anni fa, pigro e addormentato. Niente più di una storia come quella poteva costruire un giallo a puntate a basso costo, capace di tenere le persone attaccate allo schermo e fidelizzate ai quotidiani. Avetrana si è dimostrata così un cortocircuito fra le ambizioni degli avetranesi e delle persone convolte, che improvvisamente si sono ritrovate personaggi televisivi e da rotocalco. Uno scontro fra le capacità manipolative di una certa stampa scandalistica e l’innocente ricerca della verità. Un mix esplosivo che ha avuto per tutti esiti nefasti: ne hanno risentito le indagini, tutte le persone coinvolte, soprattutto Sarah. La sua morte è passata in secondo piano. E ha segnato la perdita completa dell’innocenza del telespettatore, che prende parte all’orrore dello show del dolore e lo alimenta».
Quanto racconta di noi questa storia?
«Quel giorno, in via Deledda, non è morta solo Sarah Scazzi. La sua tragica scomparsa ha segnato in modo definitivo la perdita di ogni dignità della stampa italiana. La spettacolarizzazione del dolore ha toccato la sua vetta più alta, sdoganando la disumana crudeltà di taluni giornalisti e l’assoluto sadismo del pubblico. Siamo diventati tutti peggiori. Dieci anni forse sono un tempo giusto per riflettere con costruttività su quanto capitato»
Facciamo però un passo indietro. Quando e perché avete cominciato a interessarvi alla vicenda di Sarah Scazzi, cos’è scattato?
«È stato il caso di cronaca nera che più ha influito sull’immaginario collettivo degli ultimi dieci anni. E conteneva tutto ciò che ci interessava: raccontare il Sud nei suoi meandri più arcaici e rurali, la trasformazione di persone qualsiasi in personaggi televisivi, il processo mediatico, la famiglia come luogo di protezione e d’orrore, le indagini complesse e non prive di superficialità ed errori».
I media, dicevamo, hanno giocato un ruolo fondamentale.
«I processi si dovrebbero fare in aula, non in televisione. In questa vicenda, però, tutto è andato in onda in diretta televisiva, in ore e ore di riprese. Non dobbiamo dimenticare che i giudici popolari guardano la televisione, e che è difficilissimo arrivare a un caso di cui si è così massicciamente parlato scevri da preconcetti. Non a caso un giudice popolare rinunciò al suo incarico, dopo che la difesa dimostrò come avesse un’opinione preconcetta».
Qual è stato il momento più doloroso secondo voi?
«Tutti ricordiamo scuramente lo sguardo di Concetta Serrano, la madre di Sarah Scazzi, quando lungo la diretta di Chi l’ha visto? Federica Sciarelli le comunicò che la figlia era morta, e che nelle campagne intorno Avetrana se ne stava cercando il corpo guidati dallo zio Michele Misseri. Quello non è stato solo l’ultimo episodio dell’horror show che si stava dipanando in Salento, ma la definitiva perdita dell’innocenza del nostro Paese. Dove aveva iniziato il caso Vermicino, con la diretta Rai per la salvezza del piccolo Alfredino nel pozzo, arriviamo alla cronaca di una morte annunciata».
Come avete organizzato il lavoro?
«Abbiamo lavorato su tre fronti: facendo ricerche d’archivio, leggendo la mole spaventosa di documenti e incontrando i protagonisti della vicenda. Il nostro approccio è stato laico: siamo partiti senza pregiudizi, siamo usciti pieni di domande».
Nel libro ci sono diverse esclusive…
«È tornato a parlare dopo anni Michele Misseri, che ci ha affidato la sua storia biografica in dei fogli manoscritti. Dagli abusi subiti da bambino al suo difficile passato, Michele ci ha aperto il suo cuore e il suo vissuto. E si è professato ancora una volta colpevole».
Che idea vi siete fatti ripercorrendo questo caso, cosa vi ha più colpito?
«Il pregiudizio iniziale nelle indagini è certamente evidente, come lo sono le manie di protagonismo di chi da questo caso è stato toccato. La trasformazione di Avetrana, da minuscolo e dimenticato paese dell’entroterra tarantino a set a cielo aperto, è solo lo sfondo dove si è insinuata l’opinione pubblica, che ha triturato ogni cosa fra l’ossessiva caccia allo scoop e l’evidente mania di protagonismo di chi dal caso è stato toccato».
Spesso ci si dimentica la vittima. Ma chi era Sarah Scazzi?
«Era una ragazza di 15 anni che sognava il futuro, ed è rimasta imprigionata nella narrazione che di lei è stata fatta dai giornali: da una parte la lolita che sogna di fare cose da grandi, dall’altra la bambina dal corpo infantile. Fra questi due estremi crediamo, però, che ci sia la verità».
E gli altri protagonisti?
«Sono tutti in parte vittime di un sistema, quello mediatico, che ne ha fatto carne da macello. Alcuni, come Sabrina Misseri, credevano di dominare il circo mediatico, invece si sono trovati schiacciati dai suoi rodati meccanismi. Altri, come Michele Misseri, si sono riscoperti, da presunti succubi della vita famigliare, prima omicidi dunque vittime. Questa vicenda è incredibile proprio per questo: niente è come sembra».
La cronaca nera, a volte, è una radiografica della società. Ma un delitto del genere poteva maturare solo al Sud?
«A legami umani universali si sovrappongono letture tipicamente meridionali e ancestrali, che fanno del rispetto del nucleo famigliare un diktat fondamentale. Quello di Sarah Scazzi è un delitto famigliare, maturato in un ambiente complesso e segretamente, sotterraneamente, violento. Nel libro abbiamo provato a raccontare questo contesto crudele e quotidiano».
Sarah, secondo voi ha avuto giustizia piena?
«Dopo due anni di lavoro siamo sempre più convinti che siano numerosi e molto inquietanti i buchi neri che costellano l’intera vicenda. Adesso la questione è nelle mani della Corte europea dei diritti dell’uomo, cui l’avvocato Franco Coppi ha fatto ricorso mettendo a fuoco i legittimi dubbi della difesa. L’Italia dovrà presentare una memoria scritta, dunque il caso verrà valutato nel suo complesso. L’augurio è che il libro possa far riflettere i lettori. La triste storia di Sarah Scazzi non è solo una faccenda di cronaca nera, ma dice molto di noi».
Dopo la presentazione di qualche settimana fa ad Isernia e dopo un lungo tour in Puglia, ci saranno presentazioni anche in Molise…
«Sì, oggi saremo prima a Miranda presso la sala consiliare alle 17.30, poi alle 20.00 al Palazzo Ducale di Larino. E domani al castello di Macchiagodena. È per me non solo un piacere, ma anche un onore poter tornare in Molise: gli inviti per presentare il proprio lavoro gratificano sempre, ma non posso negare che quando mi chiedono incontri in Molise è per me un orgoglio unico e imparagonabile».
Carmine, da molisano, come vedi oggi la nostra regione?
«Siamo una regione incredibile, e adesso pare che l’Italia e il mondo, considerato quanto scritto dal Nyt, se ne stiano finalmente rendendo conto. Dopo una lunga parentesi prima a Perugia, dunque a Roma, adesso vivo in Toscana. Uno dei progetti di vita che ho però è quello di tornare sempre più spesso, e di costruire qualcosa sul mio territorio. Vedo tanti posti che hanno molte meno bellezze e risorse delle nostre. Bisogna sapersi proporre in modo costruttivo, cercando di incentivare il turismo e alimentando l’indotto virtuoso della cultura. Spero di poter fare la mia parte».
ppm

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