Da 18 anni vive tra Pesche e Roma. In Italia è arrivato per studiare a Milano, ha trovato l’amore e un nuovo skyline, senza grattacieli. Nel cuore del Molise, a 4mila chilometri dal suo paese natale, Israele. E da giorni, ormai, Barak Levinsky (conosciutissimo in Molise e non solo perché titolare per tanto tempo del Casale Kolidur, in tv con la trasmissione “Quattro ristoranti”, ndr) trascorre le ore attaccato alla televisione oppure sui canali di messaggistica, in costante collegamento, per quanto possibile, con la sua famiglia lontana. «Stanno tutti bene e sono al sicuro al momento, perché la maggior parte del fuoco attualmente è vicino Gaza – racconta Barak –: questa mattina (ieri, ndr) erano nel bunker perché Hamas ha lanciato missili su Tel Aviv e Jerusalem». Tutta la famiglia di Barak vive a Tel Aviv. L’ultima sua visita risale a quasi un anno fa, era novembre. Una vita fa, a guardare le immagini scorrere sui telegiornali di tutto il mondo. Da giorni il suo pensiero fisso è alla guerra, improvvisa e con quel carico di morte che di colpo ha fatto irruzione nelle vite del suo popolo, della sua famiglia. La guerra lì dove ci sono le sue radici, la sua storia, il suo passato che è presente e che sarà anche futuro.
Barak non ne vuole parlare. «Non mi sento ancora, onestamente: ho troppa rabbia e troppo dolore al momento – racconta –. Ho tutta la famiglia in Israele: i miei genitori, i miei due fratelli, zii, cugini. Tutti». Ieri mattina la sua mamma ha condiviso con lui quel dolore. E per Barak non è facile, affatto. Lui è qui, al sicuro, in una piccola cittadina dove ci si conosce tutti, dove il cielo non è solcato dai razzi, non porta morte, dolore e distruzione. Un piccolo paradiso dove non c’è la paura, dove non c’è la guerra. «Seduta e piangente davanti alla televisione – ha scritto Dorothy, la sua mamma, che ha 67 anni, tre figli (di cui due vivono a Tel Aviv) e otto nipoti –: ogni conteggio mi spezza il cuore, non ci sono parole per descrivere ciò che sta accadendo se non come un olocausto. Un olocausto umano, un olocausto della sicurezza, un olocausto politico. Entrano e ci uccidono, nelle nostre case. Le madri vengono assassinate davanti agli occhi dei figli, i bambini vengono presi e separati dai genitori, uomini e donne vengono smistati, le nonne vengono fatte a pezzi senza pietà, i bambini fingono di essere morti per sopravvivere senza essere colpiti, le donne vengono portate via in motocicletta. La realtà supera ogni immaginazione, quindi le mie associazioni mi portano a usare il termine olocausto: marciare come pecore al macello, senza una risposta militare e politica. La mente non tollera tale caos a livello politico, militare, organizzativo: ognuno per sé, tranne che per atti di eroismo da parte di persone buone e coraggiose. Siamo tutti in lutto per il sogno infranto di vivere nello Stato di Israele, lo Stato ebraico in sicurezza: non è un esilio, non è un luogo straniero, è un fottuto paese sovrano, un paese indipendente e illuminato, il miglior paese high-tech del mondo, con l’esercito più sofisticato e ben equipaggiato del mondo. La verità non può affrontare bestie e mostri umani, ora mi sento orfana dei leader, orfana di un padre dell’esercito. Se nessuno può proteggermi, per favore vieni. E io abito al centro, le paure del sud non sono qui ma prigioniere dentro casa, che neutralizzano la vita di circa 10 milioni di residenti. Dovrebbe essere dichiarata un’organizzazione terroristica – continua la signora Levinsky, riferendosi evidentemente ad Hamas –, che deve essere distrutta senza negoziati e sradicata dal mondo. Mi dispiace per tutti coloro che sono stati uccisi e feriti, non avrei mai immaginato questo caos, questo olocausto. Mi dispiace per queste parole di rabbia che sgorgano dal sangue del mio cuore, nella speranza che ci sarà un futuro per i miei figli e nipoti». Rabbia, dolore, paura, preoccupazioni. Nessuno può immaginare nemmeno lontanamente quello che accade in Israele in queste ore, il racconto è mediato dalle televisioni di tutto il mondo, dai resoconti giornalistici. Per Barak non è così. Il racconto dell’olocausto ha la voce della sua mamma, le sue parole pronunciate a 4mila chilometri da Isernia dove lui, oggi, prova rabbia e dolore. E non trova la forza di parlare.

 

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