A provocare la morte del senza fissa dimora a Pozzo Dolce è stata la mano dell’uomo, ma non la sua: quello di un terzo. La tragedia di un uomo che perde la vita in un tragico incendio, frutto amarissimo, per così dire, di un mondo della disperazione, non muta rispetto all’evolversi di una inchiesta giudiziaria, perché nessuno lo riporterebbe in vita, purtroppo. Ma c’è un aspetto dirimente, quello legato alla giustizia, sociale e penale, alle responsabilità individuali. L’esito dell’autopsia effettuata dal professor Cristian D’Ovidio dell’Università di Chieti-Pescara ha purtroppo certificato il dolo nel rogo spaventoso che ha ucciso il 30enne di nazionalità romena dall’identità ancora ufficialmente sconosciuta, deceduto per asfissia e non a causa di un fuoco acceso in modo volontario o accidentale da lui stesso. Insomma, c’è chi è a piede libero con la spada di Damocle di una imputazione omicida. Peggio di così, sinceramente, non poteva andare. Perché si aggiunge sale sulle ferite di una storiaccia socialmente allarmante e hanno fatto bene, benissimo, Procura di Larino, squadra mobile e commissariato di Polizia, Vigili del fuoco ad andare oltre quelle che potevano essere apparenze diverse, fattore tutt’altro che scontato, come la lunga sequela di cantonate prese in vari delitti in Italia e altrove, dimostra. Il professor D’Ovidio ha compiuto l’esame autoptico per il quale era stato incaricato in oltre 5 ore di prelievi, riscontri, radiografie, dalla tarda mattinata del 5 dicembre fino al tardo pomeriggio. Un accertamento irripetibile condotto sia per risalire possibilmente all’identità della vittima, sia per stabilire le cause del decesso. «Qui si fanno degli esami specialistici per l’identificazione della persona. E noi li abbiamo fatti. Ora dobbiamo comparare questi esami con il Dna», ci ha riferito lo stesso anatomo-patologo. L’esito degli stessi esami sul cadavere carbonizzato è stato poi riferito alla Procuratrice della Repubblica Elvira Antonelli, che ne ha preso atto per indirizzare ora le indagini promosse subito dopo che le fiamme avessero distrutto il chiosco-bar abbandonato e mandato in fumo la vita del clochard, di cui, però, non è ancora possibile stabilire con certezza chi fosse, come ha sottolineato la stessa dottoressa Antonelli. «Non abbiamo elementi per la identificazione del cadavere, noi abbiamo un nome, ma al nome non possiamo dire niente perché abbiamo fatto la ricerca, l’acquisizione di elementi genetici, e la certezza si avrà solo quando riusciremo a rintracciare un parente per fare la comparazione genetica dei profili del Dna. Quindi sino ad ora abbiamo una persona che immaginiamo essere un non italiano, ma abbiamo bisogno che l’InterPol faccia il suo corso e ci identifichi uno dei parenti sul quale fare il prelievo genetico. Il nome potrebbe essere Nicolai, ma noi non lo sappiamo e non ci sentiamo di dare elementi di certezza. Poi per quello che riguarda la causa della morte è asfissia da fumo. Un altro elemento che ci sentiamo di poter dire è che l’incendio non è stato provocato volontariamente né accidentalmente dalla persona deceduta. L’ambiente nel quale stiamo lavorando è quello dei senzatetto, quindi non si esclude la responsabilità di terzi. Il cadavere era parzialmente se non tutto combusto. E’ stato un incendio doloso».
Emanuele Bracone

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