“Un’affermazione del genere mi costa molto, ma se le istituzioni continuano nella loro politica di miopia nei confronti della mafia, temo che la loro assoluta mancanza di prestigio nelle terre in cui prospera la criminalità organizzata non farà che favorire sempre di più Cosa Nostra”. Sono le parole di Giovanni Falcone, uno che di lotta alla mafia se ne intendeva. Prendo spunto dal suo pensiero ancora attualissimo per affermare che il “Decreto sicurezza” potrebbe essere uno strumento efficace di lotta alle mafie invece di criminalità organizzata non se ne occupa per nulla.
I mafiosi ormai non usano più la strategia della tensione e del terrore, non fanno più stragi ma si mimetizzano nei meandri dello Stato. Non creano insicurezza percepibile ma solo danni incalcolabili sfortunatamente invisibili. Nel silenzio più assoluto le mafie corrompono, riciclano, fanno affari in Italia, in Europa e nel resto del mondo. Agiscono oramai indisturbate o quasi, nonostante le tante inchieste e processi in corso nel nostro Paese.
Il decreto Salvini, in barba ad alcuni principi fondamentali della lotta alle mafie, introduce la possibilità di vendere anche a privati i beni confiscati alle organizzazioni mafiose: una scelta molto pericolosa. Chi conosce le dinamiche con cui si muove la criminalità organizzata sa bene che vendere a chiunque questi beni significa offrire su un piatto d’oro la possibilità ai mafiosi di ricomperare. Se ciò avverrà, lo Stato ne sarà sconfitto perché i mafiosi potranno dimostrare a tutti il loro incommensurabile potere, superiore persino a quello dello Stato.
Le istituzioni ancora una volta si arrendono di fronte alle difficoltà e la prova sarà il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura.
Per i mafiosi perdere i beni è una mancanza di credibilità, di autorità, di controllo del territorio, significa perdere “la faccia” soprattutto se poi sono utilizzati a fini sociali, dando lavoro pulito e educando i giovani al rispetto della legge.
Caro ministro Salvini, i cambiamenti normativi sulle vendite dei beni confiscati alle mafie devono essere fatti con modalità specifiche. La nuova legge sulla vendita degli immobili confiscati alle mafie non dovrebbe sottrarli mai al patrimonio pubblico sociale per trasformarli esclusivamente in capitale privato, ma dovrebbe dare l’esclusiva dei ricavi della vendita alle scuole, alle associazioni antimafia, alle cooperative sociali, alle forze di polizia e alla tutela del patrimonio dello Stato.
L’eventuale ipotesi di consentire la messa in vendita dei beni inutilizzati confiscati alle mafie con i ricavi dati senza alcun criterio specifico per il sociale sarebbe deleteria. Questo perché con altissima probabilità diverrebbero sì guadagno, ma non efficace strumento di lotta alle mafie.
Un’altra ipotesi regolabile con il nuovo strumento normativo potrebbe essere invece quella dell’affitto del bene sempre vincolato con ritorno economico nel sociale (associazionismo, scuola, famiglia). Ora ad avere questa facoltà sono lo Stato e l’Agenzia nazionale che ne destinano i proventi al Fondo unico giustizia che li distribuisce, poi, fra ministero dell’Interno e della Giustizia e le associazioni delle vittime di mafia. Sarebbe auspicabile che a beneficiare di questi fondi fossero soprattutto le scuole, le famiglie disagiate e le associazioni antimafia.
I beni, una volta confiscati in via definitiva, entrano a fare parte del patrimonio dello Stato, che può mantenerli per finalità istituzionali o trasferirli agli enti territoriali che possono, a loro volta, gestirli direttamente o assegnarli tramite un bando in concessione a titolo gratuito alle associazioni ma non venderli. Se queste scelte sono impraticabili, sono lo Stato e l’Agenzia nazionale ad avere la facoltà di metterli a reddito.
La vendita senza regole specifiche e aperta a tutti sarebbe pura follia.
Non dobbiamo dimenticarci che la gente avrebbe paura di acquistare un immobile confiscato a un mafioso o di aprirci un’attività. Un conto è un bene confiscato a un evasore o a un truffatore altro; un conto è un bene della camorra, della mafia, o della ndrangheta. Acquistare un bene in una di quelle zone ad alta densità mafiosa significa poi vivere sotto scorta e con il rischio di attentati continui e persino rischi per la propria vita e quella dei propri familiari.
L’unica via seriamente praticabile pertanto resta la vendita con patto vincolato, da noi proposta, per poi utilizzare i ricavi per attività sociali o come estrema soluzione quella di demolire il bene per dare una dimostrazione che lo Stato esiste e va rispettato.
Una cosa è certa a questo punto: il timore di poter riconsegnare i beni alle mafie non può impedire una seria discussione in materia tenendo conto però del fatto che i danni di una legge sbagliata possono provocare conseguenze difficilmente sanabili nel breve periodo. Una buona legge, pertanto, si misura dal fatto che possa rendere più facile fare la cosa giusta e più difficile quella sbagliata e a me questo decreto così com’è non mi sembra rispetti questo minimo principio di ragionevolezza logica prima che giuridica.

Vincenzo Musacchio,
giurista e presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise

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