Da mezzanotte Maurizio Di Marzio, 63 anni, è un uomo libero: caduti in prescrizione, infatti, i reati di banda armata, associazione sovversiva, sequestro di persona e rapina per cui doveva scontare ancora a cinque anni e nove mesi di reclusione.
Latitante dal 28 aprile, quando la polizia francese arrestò sette ex terroristi italiani che avevano trovato rifugio Oltralpe, tra cui Giorgio Pietrostefani condannato per l’omicidio del commissario Calabresi e l’altro molisano Enzo Calvitti, (altri due si sono costituiti il giorno dopo), l’ex Br originario di Trivento ha vinto la sua battaglia con la giustizia italiana.
La sua attività nelle Brigate Rosse è legata al contesto romano dove il suo nome è associato all’attentato al dirigente dell’ufficio provinciale del collocamento della capitale Enzo Retrosi nel 1981 e, su tutti, al tentato sequestro del vicequestore Nicola Simone, il 6 gennaio dell’anno successivo. Il vicecapo della Digos, scomparso recentemente, era impegnato nella lotta al terrorismo rosso e, in seguito all’episodio in cui rimase gravemente ferito e per cui gli venne conferita la medaglia d’oro al valore, fu il primo direttore dell’Interpol Italia. A quell’operazione presero parte anche Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli e Marina Petrella, esuli in Francia come Di Marzio ma per i quali sono già iniziate le udienze per l’estradizione.
A Parigi, in Rue de Mauberge, Di Marzio ha aperto insieme alla moglie il ristorante Taverna Baraonda, che vende anche prodotti italiani. Lì era facile incontrarlo. E, si dice, il posto è tappa obbligata per i triventini che visitano la capitale francese e conoscono Di Marzio e la sua famiglia.
A Panorama, anni fa, consegnò la sua personale ‘revisione’ ammettendo di aver commesso «un mare di sciocchezze» che non ripeterebbe, anche se «prima di giudicare bisogna considerare il contesto». Si definiva cambiato senza nascondere l’irritazione nei confronti dell’Italia, da cui si sentiva perseguitato: «Ho già scontato sei anni di carcere» e «non ho mai ucciso nessuno», si difendeva nell’intervista.
Fermato nell’agosto del 1994 dalle autorità francesi, sempre in seguito alla richiesta arrivata da Roma, l’anno dopo la Corte d’Appello si espresse in favore della sua estradizione. Ma, per via della Dottrina Mitterand, quel decreto governativo non venne mai firmato e Di Marzio sfuggì, una seconda volta, alla giustizia italiana.
La terza, oggi. Proprio in vista delle prescrizioni, all’orizzonte non solo per Di Marzio, il presidente della Repubblica Emmanuel Macron e il ministro della Giustizia Eric Dupond-Moretti – che, per difendersi dalle accuse piovute dalla sinistra e da alcuni intellettuali dichiaratamente contrari all’estradizione, ha paragonato gli esuli italiani ai terroristi del Bataclan – avevano deciso di accelerare le operazioni. La decisione del Tribunale di Milano di dichiarare “cittadino comune” l’ex membro dei Proletari armati per il comunismo Luigi Bergamin voleva tentare di superare la prescrizione, fissata all’8 aprile, ma ha provocato la reazione immediata di entrambi gli avvocati di quello che fu il compagno di lotta di Cesare Battisti. Un provvedimento che «contesteremo» perché «non ha valore in Francia», ha avvertito l’avvocata Irène Terrel. Le polemiche hanno scoraggiato a prendere posizioni simili anche per Di Marzio. Ambienti vicini all’inchiesta a Parigi lasciano intendere che il tentativo di Di Marzio di arrivare alla scadenza del 10 maggio era piuttosto scontato e che, in ogni caso, si tratta – fra i 10 individuati per riattivare le procedure di estradizione – della posizione meno grave: nessun omicidio e pena in buona parte già scontata in carcere.
Quando Maurizio Di Marzio si sposò, nell’area trignina ne parlano ancora, lo fece in un luogo al confine. Da mezzanotte non è più possibile estradarlo in Italia, potrà tornarci se vorrà da uomo libero.

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.