Trent’anni di lavoro alle spalle, 52 di età. Un’attività autonoma che gli piaceva e dava soddisfazioni, poi le difficoltà e la scelta di chiudere la partita Iva. Saldati i conti con lo Stato fino all’ultimo centesimo (tasse e contributi, in particolare), ha preferito fermarsi e non rischiare oltre.
A gennaio scorso la Regione Molise approva il bando per i progetti di utilità diffusa. Destinatari, i disoccupati senza alcun sussidio. Il pensiero va più facilmente a chi è stato licenziato, ma la lunga crisi rianimata ora dal Covid ha invece fatto moltissime vittime fra i piccoli e piccolissimi datori di lavoro di se stessi.
Mario, lo chiamiamo così per rispettarne la volontà di raccontare la sua storia conservando un pezzetto di riserbo che per lui ora è vitale e si chiama dignità, aderisce subito all’iniziativa. Fa domanda e viene scelto dal Comune per cui da giugno si occupa di lavori di pubblica utilità. Come gli altri circa 500 compagni di sventura, non vede ancora un euro. L’indennità lorda prevista è di 600 euro mensili. Un paio di bollette e una spesa consistente. Ma per lui sarebbe oro. Perché Mario ha una famiglia da mandare avanti. «Ho i genitori che hanno 80 anni. Cosa faccio? Vado chiedere aiuto a loro? Mi vergogno. Rischio davvero di perderla, la dignità», racconta con mortificazione intervallata da legittima rabbia.
Chiama la redazione perché la sua odissea venga resa nota. Incappato nel rimbalzo di responsabilità fra Regione e Inps, quando ha letto che il presidente Toma ha riferito di Comuni che non avevano inviato i dati e quando dall’Inps si è sentito rispondere che i dati inseriti erano errati e il caricamento da parte della Regione sarebbe dovuto iniziare da capo, ha chiesto al responsabile dell’amministrazione per cui presta servizio. Non risultavano problemi. Invece, poi, dopo chissà quante telefonate servite finalmente a farsi passare il dirigente che in Regione cura queste pratiche, che è Vincenzo Rossi – visto che non c’è un call center o comunque un numero dedicato a cui poter chiedere informazioni – si è sentito rispondere che c’è poco personale perché quota 100 ha quasi svuotato gli uffici e a completare l’opera è sopraggiunto il Covid con l’annesso lavoro da casa. Gli è stato riferito anche di un’incongruenza nella sua pratica che la blocca. Ma non è riuscito a venire a capo di che cosa si tratti. Soprattutto, l’incongruenza è rimasta tale. Perché dall’Inps si sente sempre rispondere che verrà pagato quando la Regione inserirà tutto ciò che serve.
«Vorrei che mi dicessero la verità: domani, fra un mese, fra sei mesi sarò pagato. Così potrei anche scegliere che cosa fare». Invece, qualche telefonata è finita pure male: all’altro capo del telefono qualcuno che con uno stipendio fisso da impiegato della Regione – e magari stava rispondendo comodo a casa sua – non riesce proprio a capire la disperazione di chi ogni mattina esce, trovando con chissà quali sacrifici i soldi per la benzina o l’abbonamento all’autobus, per guadagnarsi 600 euro (lordi) e scopre che finora è stata un’illusione. Come per i suoi colleghi che hanno scritto a Primo Piano da Montenero Val Cocchiara.
Qualche altro collega di Mario invece ha ricevuto le spettanze. Di due mesi, perché la convenzione prevede il pagamento bimestrale. Ma chi ha cominciato a maggio ha già accumulato cinque mesi e più di lavoro. Errori, disfunzioni, carenza di personale, sistemi che non dialogano fra di loro. Tanti e troppi motivi che però non fanno un mezzo alibi. Le responsabilità sono evidenti e non sarà la cornetta sbattuta in faccia a Mario e ai tanti, troppi, nella sua situazione a farle sparire.

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