Tonino ha 72 anni e un’officina meccanica dove scende ancora ogni giorno. Una chiacchierata coi clienti di sempre, un consiglio ai giovani. Dodici anni fa il cuore gli ha creato qualche problema, risolto col bypass. E la vita è continuata operosa e appassionata come prima. Il 26 ottobre 2020 accetta la benevola pressione del medico curante e si fa somministrare il vaccino antinfluenzale. Due giorni dopo comincia a sentirsi spossato. La sua esistenza svolta in quei giorni. Neanche tre settimane dopo, è lui – come racconta la figlia Debora con la voce ferma e l’anima ferita – la 72esima vittima del Covid in Molise.
È morto nel reparto di malattie infettive a Campobasso, i suoi cari lo hanno visto sparire nell’ambulanza che dal Veneziale il 6 novembre lo ha portato al Cardarelli. Di Tonino, 72enne dinamico, conosciuto e benvoluto da tutti a Isernia, moglie e figli ricorderanno sempre «la disperazione, la sua disperazione che ci tormenta».
Il 26 ottobre è un lunedì, passano due giorni dal vaccino e Tonino Pettorano si sente debole, fiacco. Chiama il suo medico che lo rassicura: può succedere dopo l’antinfluenzale. Sabato gli sale la febbre, nulla di eclatante e poi passa. Il giovedì successivo è il grande affanno che preoccupa sua moglie. La signora Maria chiama il 118 che consiglia il ricovero. Il giorno dopo è il medico di famiglia a prescrivere tampone ed esami al torace. È il 6 novembre, il responso al Veneziale: è positivo al Sars-Cov2 e ha la polmonite interstiziale bilaterale.
«Ci cascò il mondo addosso, insistemmo per curarlo a casa, non volevamo andasse in ospedale. Però i medici ci dissero che questo è il protocollo. Preparammo le sue cose e gliele portammo, da quel venerdì papà non lo abbiamo visto più».
All’inizio di una tragedia non se ne ha percezione, si va avanti anzi con la speranza che passerà. Alla famiglia Pettorano, invece, la tragedia si è mostrata subito. Quella domenica, l’8 novembre, Tonino era da poche ore nel reparto Covid. Raggiungibile solo al cellulare. Una telefonata drammatica, che la sua famiglia non dimenticherà. «Era disperato, urlava, chiedeva aiuto. Diceva: mi hanno lasciato solo, mi hanno tolto il casco, chiamo i medici ma non arrivano… Di colpo la telefonata si interruppe e per due, tre giorni non riuscimmo più a sentirlo. Il telefono era irraggiungibile. Finalmente il mercoledì sera un infermiere ci contattò spiegandoci che mio padre era vigile, solo che il cellulare non funzionava. La mattina dopo gliene comprai un altro, lo portai a Campobasso, supplicando di consegnarlo a papà. Anche mio fratello mosse mari e monti al telefono perché glielo portassero subito. Quando finalmente ci parlammo, mio padre reagiva, parlò con la nipotina di tre anni e mezzo, la sua gioia. Ma i medici – ricorda Debora – quando ci chiamavano descrivevano una situazione diversa: suo marito, suo padre, non reagisce, si toglie il casco, non mangia. Così ci dicevano. Poi magari il giorno dopo ci riferivano che l’ossigenazione era migliorata…». Come in quei giorni, Debora e i suoi brancolano nel buio, cercando di capire cosa è accaduto. Il Covid è un nemico ancora sconosciuto.
Le stazioni di questa privata via Crucis sono tutte vissute al telefono. Dal reparto, il venerdì successivo al ricovero chiamano casa Pettorano, probabilmente il primario Santopuoli: il consiglio è, se c’è qualche figlio che vive fuori, di farlo rientrare perché Tonino «potrebbe mancare nel giro di qualche ora. Il sabato lo sentiamo, parla, è vigile. Ma i medici ci continuano a dire che non è presente… Allora chiediamo di spostarlo in terapia intensiva, di intubarlo. Ci rispondono che nelle sue condizioni sarebbe accanimento terapeutico».
Debora continua a raccontare, lucida e consapevole che suo padre non glielo restituirebbe nessuno, nessun giudice e nessun risarcimento. Ma anche ostinata nel volere la verità. Andrà lei stessa nei prossimi giorni a ritirare la cartella clinica che insieme ai suoi cari ha richiesto. Tornerà a Tappino dove l’ultima volta è stata il 15 novembre. Era andata a consegnare la biancheria per il padre, una dottoressa che «forse si era impietosita davanti alle mie richieste di parlare con qualcuno, si affacciò alla porta e mi disse che mio padre non reagiva bene, che per lui non sapevano cosa fare. Che questa malattia è così: nel giro di qualche ora i pazienti non ci sono più».
La mattina successiva, intorno alle 10, «grazie a un’infermiera gentilissima, mia madre riuscì a sentire mio padre al cellulare. Erano passati pochi minuti dalla fine della loro conversazione e squillò il telefono di casa». Rispose proprio la signora Maria ed è lei a raccontare quei momenti: «Una persona urlando mi disse: la dovete smettere, per suo marito non c’è più niente da fare! Chiesi chi fosse e mi rispose: sono il medico del Covid».
Fu la stessa gentilissima infermiera a regalare, quella sera, a Tonino Pettorano e alla sua famiglia gli ultimi momenti insieme. «Parlò con tutti… ricordo che mandammo a un suo carissimo amico il nuovo numero di cellulare. Pensammo che a papà avrebbe fatto molto piacere sentirlo. Erano le 20.30 di lunedì. All’1.45 squillò di nuovo il telefono di casa». E qui è Maria a raccontare: «Signora, mi disse la stessa voce del mattino, suo marito è morto. Gli chiesi: lei è il dottore che mi ha chiamato stamattina? E lui confermò: sì, signora sono io…». Una pausa che pesa più a chi la ascolta che a lei. «E così è finita una vita… Una vita di sacrifici, la vita di una persona attiva, dinamica, che stava bene». La vita di suo marito.
Pochi medici, che chiamano i familiari dei pazienti per pochi minuti. Perché i pazienti, e i familiari, sono tantissimi. Pochi infermieri e Oss. E la consapevolezza ormai acquisita che un malato di Covid che ha bisogno di ventilazione con i caschi Cpap è un paziente complesso da assistere. Informazioni frammentarie, che se si ha un marito, un padre di colpo in fin di vita, si fa fatica a comprendere ed accettare. Cose inspiegabili, come il fatto che la signora Maria non sia stata sottoposta ancora a tampone dall’Asrem, che al figlio il test sia stato fatto solo tre giorni fa. Comunque tutti in famiglia hanno effettuato i tamponi privatamente e sono risultati negativi. E poi l’addio mai consumato. L’umanità, il tatto perfino, smarriti nei momenti in cui invece servirebbero di più. Episodi singoli che lasciano il segno e vanificano il sacrificio di tutti.
«Abbiamo parlato con altre persone nella nostra situazione. Le stesse storie: si tolgono il casco, non reagiscono bene, non c’è più niente da fare». Insieme agli altri familiari, stanno mettendo su un comitato. Che per ora vuole la verità. «Mio padre è entrato lì con le sue gambe, è uscito in un sacco di plastica nero». Neanche adesso la voce di Debora trema. Solo quando le domandi qual è l’ultimo ricordo che ha di Tonino, «la vittima numero 72», allora sì che si incrina: «Le grida di quella domenica. Chiamate qualcuno, ci implorava. La sua disperazione che ci tormenta…».

rita iacobucci

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