Quando il 118 arrivò a casa sua, gli operatori erano un po’ scettici. «Signora ma chi glielo ha detto che ha contratto il virus?», le dicevano.
Lucia Miri, 61 anni quando si è ammalata, aveva tosse da qualche mese, negli ultimi giorni le cose erano peggiorate. «Pensavo di soffocare». Le tv parlavano dei casi italiani di coronavirus: Codogno, Vo’, Alzano Lombardo. Lontano da Montenero di Bisaccia. Fu il suo medico a dirle: resta in casa, forse hai contratto il virus, chiamo io il 118. E così scoprì di essere la paziente 1 del Molise.
Il Covid ha lasciato segni importanti. Da quando è uscita dal Cardarelli, dalla sanità pubblica regionale non ha avuto più contatti. Nessun servizio è ancora previsto in Molise per chi è guarito eppure porta ‘cicatrici’ serie: «Le visite le ho fatte io privatamente».
L’emergenza le impedisce dall’estate scorsa di rivedere le figlie, una a Milano e l’altra nel Beneventano, e i nipotini. «È la cosa che mi dà più dolore».
Lucia, com’è la sua vita dopo il Covid?
«Strascichi ne ho. Dolore alle gambe, al braccio, nei muscoli. La respirazione non è a pieno, se cammino un po’ mi affatico. A volte ho vuoti di memoria E non dormo: tre ore per notte al massimo».
Ha potuto usufruire di monitoraggi o servizi sanitari post Covid?
«No, non ce ne sono. Solo a pagamento. Uscita dall’ospedale, non si è fatto sentire più nessuno. Quando ho avuto bisogno, ho fatto io delle visite».
Le capita di ripensare a quegli istanti in cui stava male?
«Continuamente. Quando non dormo la notte mi vengono in mente. Non ce la facevo a respirare, mi mancava letteralmente l’aria. Pensavo che potevo soffocare e non esserci più. Essendo cardiopatica, ne avevo terrore. Chiamai il mio medico e mi disse: resta in casa, potresti aver contratto il virus, visto che sei stata da tua figlia. Gli risposi: ma ho questa tosse da settembre, ottobre. E poi qui sembrava una cosa lontana il virus. Allertò lui l’ambulanza e anche gli operatori del 118 furono un po’ scettici. A Campobasso poi l’esito positivo del tampone. Mi sembrava talmente assurdo, non riuscivo a spiegarmelo. Mia figlia, la sua famiglia, da cui ero stata a Telese, stavano tutti bene. Pensando e ripensando feci un’ipotesi: al ritorno sul pullman l’autista tossiva e gli chiesi se stesse bene. Mi rispose che aveva la febbre, gli era salita dal mattino. Forse il contagio è avvenuto allora… Sull’autobus solo due ragazze avevano la mascherina: studiamo su al Nord e la mettiamo per precauzione, mi dissero».
Il 2 marzo 2020, test positivo e ricovero. Le terapie, la riabilitazione: dall’ospedale fu dimessa il 25 aprile.
«Sì, in rianimazione sono stata 22 giorni».
Non ricorda nulla?
«Solo un tunnel giallo, ero lì dentro e correvo per non farmi prendere dalle ombre che ai lati allungavano le braccia. Ce l’ho sempre in mente. Ma forse è stato un sogno, non so».
Lucia, ha ancora paura?
«Sto molto attenta, sì. Sono sempre in casa, esco solo per fare la spesa e portare il cane fuori per i suoi bisogni. Ho paura perché non so se ho ancora gli anticorpi, poi circolano le varianti. Ho paura come gli altri. La sofferenza più grande però è non poter andare dai miei nipoti e dalle mie figlie. Sono tornati questa estate, sono stati qui un mese e poi è ricominciato tutto. Certo, ci sono le videochiamate, ma un abbraccio, un bacio: è questo che mi manca di più».
Il Covid non è ancora sconfitto. E c’è ancora chi nega che sia grave come in realtà è.
«Guardi, io non auguro il male a nessuno, veramente a nessuno. Però se queste persone provassero quel che ho provato io certamente non avrebbero dubbi. È stata un’esperienza davvero brutta. E mi dispiace moltissimo per chi non ce l’ha fatta. Vorrei che tutti capissero che gli assembramenti, il non rispettare le regole non va bene per nessuno. Ho il pensiero fisso per i miei figli, i miei nipoti. Sono sempre lì a ripetere le raccomandazioni. Se dovesse succedergli qualcosa, non so cosa farei».
rita iacobucci

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