L’argomento è di quelli che, di solito, generano polemiche, il più delle volte rispetto alle questioni più squisitamente politiche relative all’accoglienza sul territorio italiano di migliaia di persone che scappano da territori dove si combattono guerre civili che durano da decenni, dove manca tutto quello che serve a vivere, dove la povertà economica è questione di vita o di morte, dove la speranza di sopravvivenza (e troppo spesso non è così) è solo di chi può scappare e affrontare il viaggio della speranza sospeso in un limbo tra sofferenze sulle terra e in mare.
L’argomento è spinoso anche se lo si affronta da un altro punto di vista, quello degli imprenditori che si occupano dell’accoglienza dei migranti.
Società, cooperative, professionisti che non si improvvisano gestori delle strutture ma che partecipano regolarmente ai bandi e che, se si aggiudicano quel servizio, firmano l’accettazione e la relativa convenzione in base alla quale devono onorare, ogni giorno, le disposizioni in merito.
Tutto facile? Niente affatto. In provincia di Isernia, i Centri di accoglienza straordinaria – i Cas – vivono una situazione di enorme difficoltà da almeno un paio d’anni. Perché, sembrerebbe, le spettanze dovute a chi – dopo aver partecipato e vinto quel regolare bando – si occupa delle necessità complessive degli ospiti arrivano solo con il contagocce, per importi non completi e dopo mesi dall’emissione della regolare fattura.
Un bel problema per chi si preoccupa di tutto, in base all’accordo quadro che regola l’accoglienza e alla convenzione stipulata.
E così, assieme ai migranti che accoglie e di cui si preoccupa, anche chi gestisce i Centri di accoglienza straordinaria che insistono sull’intera provincia di Isernia – e che sono direttamente collegati al ministero dell’Interno – sopravvive, affronta spese quotidiane che, sembrerebbe, non vengano mai rimborsate nei tempi dovuti.
Un ospite costa mediamente 20 euro al giorno. Una somma che comprende colazione, pranzo e cena ma anche assistenza sanitaria, il trasporto quando serve, il wi-fi, la scheda telefonica, l’abbigliamento e il famigerato pocket money da 2 euro e 50 al giorno. A queste somme l’imprenditore deve aggiungere poi le spese per l’affitto della struttura (ove mai non fosse di proprietà) e le spettanze mensili per i dipendenti.
Spese vengono ovviamente rendicontate e in merito alle quali viene emessa fattura che, da qualche tempo in qua, è bimestrale.
Ed è proprio in questo passaggio che si registrerebbe il primo intoppo: nella diramazione territoriale del Ministero sembra che manchi la figura del direttore esecuzione contratto. La professionalità, in pratica, che si occupa di verificare le rendicontazioni.
Inoltre, le fatture dei Cas vengono ormai richieste ed emesse con cadenza bimestrale: il che significa che di solito arrivano a chi dovrebbe evaderle almeno 15 giorni dopo quella che è la scadenza dei 60 giorni perché, per questioni contabili, in quelle fatturazioni ci sono le spettanze dovute ai dipendenti e quindi occorre avere il cedolino di pagamento.
Ma, secondo intoppo, la fattura non sembra venga saldata così come si dovrebbe: pare che siano versati solo acconti, dalle percentuali variabili.
Quindi, a fronte di una spesa 100 (per esempio) dopo mesi dall’emissione della fattura (a volte anche 4), nelle casse dell’imprenditore rientra il 30 per cento della somma spesa (o 40, o 50, dipende e non si capisce nemmeno bene da cosa).
Ergo, non solo le fatture non vengono saldate per l’importo complessivo ma gli acconti arrivano con il contagocce e a distanza di mesi e mesi dall’emissione delle relative fatture (e rendicontazioni delle spese).
Il che genera come è evidente un problema enorme di liquidità per le società, le cooperative, i professionisti che gestiscono l’accoglienza sul territorio della provincia.
Debiti contratti con le banche, finanziarie richieste e ottenute per ottemperare con la indispensabile liquidità alle spese sostenute quotidianamente, in forza di quel bando vinto, in forza di quella convenzione sottoscritta con lo Stato attraverso il ministero dell’Interno e i suoi uffici territoriali in base alla quale la fattura avrebbe dovuto essere pagata entro 30 giorni dall’emissione. E tutto questo mentre lo stesso Stato è debitore nei confronti di quelle stesse imprese per somme importanti. Perché, ovviamente, deve pagare quelle spese sostenute, rendicontate e fatturate per un servizio che ha richiesto, messo a bando e aggiudicato.
Gli acconti, poi, e quando arrivano, sono assolutamente insufficienti a fronteggiare le spese, siano queste per la gestione che per il personale.
Insomma, un corto circuito: le aziende avanzano soldi dallo Stato ma devono indebitarsi perché non vengono liquidate.
E, da quanto è stato possibile verificare, questo meccanismo perverso avrebbe messo in ginocchio imprese che sono sane, che continuano ad esserlo tra mille difficoltà, e che, per poter continuare a lavorare, utilizzano principalmente quei pochi euro che qualcuno – bontà sua – eroga con il contagocce (a fronte di fatture regolari) per pagare i contributi dovuti ai dipendenti.
Altrimenti, come è evidente, si potrebbe aggiungere al danno anche la beffa: il Durc non in ordine, diventerebbe motivo per perdere quell’appalto.
Che, sarà il caso di ricordarlo, non è caduto dal cielo per bontà divina ma è frutto della partecipazione ad un regolare bando. Voluto dallo Stato italiano.
Che dovrebbe tutelare gli imprenditori, le aziende, i professionisti ma che sembra faccia di tutto per complicare le cose. E per molti, questo meccanismo infernale, potrebbe essere presto un tritacarne dal quale sarà complicato uscirne senza danni irreparabili.
ls

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